lettere al direttore
Contro la pigrizia imposta da Netflix servono film alla “Oppenheimer”
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Pignolerie. La frase “l’ottimista afferma che viviamo nel migliore dei mondi possibili, il pessimista teme che sia vero” (“The optimist proclaims that we live in the best of all possible worlds; and the pessimist fears this is true”) non è di Robert Oppenheimer. E’ dell’autore satirico americano James Branch Cabell (“Lo stallone d’argento”, 1926). Il fisico newyorchese la fece sua all’inizio degli anni Cinquanta.
Michele Magno
A proposito di ottimismo. Ho visto giovedì sera “Oppenheimer”. L’ho visto d’un fiato, senza il consueto pisolino, nonostante la presenza di una sala comoda, a Roma, rifatta da pochi mesi (e divenuta intelligentemente multisala: meno posti, più spazio per tutti, meno effetto sardina). E l’ho visto al secondo tentativo, dopo aver provato senza successo a vederlo in un altro cinema, dove avevano finito i biglietti. Un film bellissimo (sei milioni e mezzo di euro in meno di una settimana). Arrivato dopo un altro film meno bello (“Barbie”) ma non di minor successo (30 milioni di euro incassati finora dalla pellicola diretta da Greta Gerwig). Ma “Oppenheimer” è un film che ci ricorda che è ancora possibile combattere la pigrizia imposta da Netflix (serie tv, divano, copertina, frittatona di cipolle fritte e rutto libero). E per farlo l’unico modo è fare film monumentali, come scrive la nostra Mariarosa Mancuso, fatti cioè per non morire di pizzichi.
Al direttore - Caro Cerasa, ho letto con estremo interesse il suo editoriale sull’“abuso di cronaca nera”. Occupandomi da poco più di un anno di temi di sicurezza urbana e legalità, lavorando a stretto contatto con le forze dell’ordine e con il prefetto della città, e al tempo stesso incontrando i cittadini, ho modo di verificare da vicino da un lato le aspettative che questi ultimi legittimamente hanno nei confronti delle istituzioni e dall’altro l’effetto sul loro sentire della narrazione di incombente “pericolo” che quotidianamente giunge loro da giornali, televisione, social e simili. La ricorrenza della parola “emergenza” abbinata a contesti e situazioni che di emergenziale hanno ormai poco o nulla contribuisce a svilire il contenuto di un vocabolo che dovremmo invece tenere da conto per essere incisivi ed efficaci all’occorrenza di un evento o contesto realmente critico. La conclusione a cui sono giunta, banale forse, è che chi fa informazione ha un diretto impatto sulla qualità della vita dei cittadini. La ringrazio moltissimo dunque per la coraggiosa riflessione che lei ci ha regalato. Sogno nella mia città un evento in cui i migliori e più sensibili giornalisti nazionali, e non solo, si incontrino e in un dibattito aperto si confrontino su questo e altri aspetti della comunicazione o, come mi piace chiamarla, della narrazione del nostro tempo. Sarebbe senz’altro un prezioso contributo alla sicurezza urbana della mia bella Verona. Con gratitudine.
Stefania Zivelonghi
assessora Sicurezza legalità e trasparenza
Al direttore - Finalmente sono comparsi su alcuni giornali articoli di critica sulle modalità comunicative mediatiche relative ai problemi del nostro tempo, riscaldamento climatico, guerra in Ucraina, femminicidi, scontri politici, ecc… Il Foglio è stato in prima fila in questa svolta che ho apprezzato moltissimo. Sono un medico psichiatra che si occupa da tempo proprio di questa tematica e ho avuto occasione di organizzare e intervenire a incontri esprimendo proprio questa mia posizione critica. Una comunicazione mediatica basata più sulle emozioni e la polemica che non sull’informazione, i dati e i fatti è una comunicazione “patologica” che genera “patologia” e che definirei pertanto col termine “discomunicazione”. Polemizzare ed enfatizzare fino alla tragicità assoluta può, forse, avere facili ritorni mediatici ed elettorali immediati, ma far leva sul populismo, senza accogliere i timori delle persone, elaborarle e restituire strumenti conoscitivi e operativi adeguati determina alla lunga il risultato opposto. In estrema sintesi, in termini psicoanalitici, si può dire che ad attaccare le angosce si ottiene come risultato il rafforzamento delle difese e quindi si aggiunge “patologia” alle già innumerevoli e profonde angosce della nostra società, senza dare spazio alla fiducia sulla capacità e possibilità di affrontare e risolvere i pur gravi problemi presenti e futuri. Consideriamo inoltre che tale atteggiamento comunicativo svela le angosce e le problematiche dei “discomunicatori” e la dice lunga sulle loro distorsioni cognitive e, talora psicopatologiche. Il problema meriterebbe una trattazione amplissima ma è importante cominciare seriamente ad affrontarlo. Ottimisticamente e realisticamente.
PS. Parteciperò alla Festa dell’Ottimismo proprio per condividere questa posizione e stabilire un contatto con la redazione del giornale di cui conservo il primo numero. Cordiali saluti.
dott. Maurizio Bellini