Lettere
Il cinema italiano oggi: molto sindacato, troppe lagne, zero botteghino
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - I ruoli italiani devono essere interpretati da attori italiani, sostiene Pierfrancesco Favino. Non mi sembra però che Burt Lancaster, scelto da Luchino Visconti per il ruolo del principe di Salina nel “Gattopardo”, se la sia poi cavata tanto male. In altre parole, dove lo mettiamo il merito?
Michele Magno
La presenza di un attore italiano che arriva al punto di chiedere che i ruoli italiani debbano essere interpretati da attori italiani ci dice molto su cosa è oggi il cinema italiano. Molto sindacato, poco talento, troppe lagne, zero botteghino. Se un regista americano sceglie un attore americano per un film incentrato su un personaggio italiano la colpa è del regista malefico, che vuole punire gli italiani, o del fatto che il suddetto regista, guardandosi in giro, si sia sentito come il René Ferretti di “Boris” di fronte alla sua famosa “cagna maledetta”? Diceva Fellini che il cinema è il modo più diretto di entrare in competizione con Dio. Competere con Dio, per il cinema italiano, è duro. Provare a non competere nella corsa al ridicolo potrebbe però essere un primo passo per non sfigurare. E da Venezia, come racconta la nostra Mancuso, qualche buona notizia c’è.
Al direttore - C’era una volta il primato della legge votata da assemblee elettive. Ma oggi c’è ancora? Quel primato è stata una grande conquista delle democrazie moderne, in occidente. La centralità della legge approvata da assemblee elettive ha consentito anzitutto l’oggettivizzazione dei precetti, che li ha resi stabili, sottratti come tali alle fluttuazioni dovute ai variabili umori e furori popolari. La stabilità di precetti espressione del principio di maggioranza è, a ben vedere, una delle maggiori cifre distintive dei moderni sistemi di democrazia rappresentativa. Con l’affermazione del liberalismo, ne è poi derivata anche la massima secondo cui tutto ciò che non risulti espressamente proibito dalla legge deve ritenersi consentito. Questo, era. Ma le cose funzionano ancora così? No. Troppo spesso, non rileva più soltanto ciò che è vietato dal precetto stabile fissato per legge da assemblee elettive. Accanto al vietato per legge, si è andato imponendo nel tempo anche il vietato per senso di opportunità, secondo un paradigma di ordine morale o etico, sovente ondivago e inafferrabile. Con il risultato pratico che anche comportamenti perfettamente leciti sul piano legale vengono in modo crescente bollati come illeciti, sui media e/o dai social, usando il filtro di una sorta di legge morale o etica. La tecnica con la quale una certa legge morale o etica si sovrappone, e alla fine tende perfino a prevalere, in fatto, sulla legge scritta approvata da assemblee elettive, è sempre la stessa, nel nostro tempo, dove dilagano, appunto, media e social: si attiva una martellante campagna con cui si pretendono pubbliche scuse dal preteso reprobo di turno, e quando quest’ultimo alla fine (per sfinimento, quasi sempre) capitola, cedendo a una pressione psicologica difficile da sostenere, il martellamento viene riattivato al rialzo, osservando che la pubblica contrizione “non basta”, occorre anche che l’interessato “lasci”, cioè si “dimetta” (dal ruolo o dalla posizione occupata). Una barbarie, che offende il senso stesso del livello di civiltà giuridica, frutto di secoli di lotte e conquiste che per tal via vengono rinnegate da gruppi di pressione o minoranze rumorose a colpi di processi di piazza con sentenze già scritte dal principio. Un copione ormai fisso. La riflessione sul punto, naturalmente, prescinde in modo totale dal merito delle questioni che di volta in volta vengono agitate contro il preteso reprobo. As usual, il punto non è se l’interessato abbia fatto o no qualcosa di vietato. Il punto è, piuttosto, quale sia il paradigma da usare per stabilire se un dato comportamento sia vietato, e, per immediata conseguenza, se esista ancora un primato della legge scritta nello stabilire cosa sia vietato e cosa no. Se, infatti, ciò che è considerato inopportuno/vietato secondo una certa legge morale, mutevole anche a distanza di poche ore o di poche settimane (o, peggio, a seconda di chi sia il preteso reprobo), e indimostratamente espressione di una maggioranza popolare, finisce per contare quanto (se non perfino più di) ciò che stabilisce un’assemblea elettiva attraverso un voto almeno maggioritario, allora c’è un problema di fondo. Che riguarda, a ben vedere, non meno che il rapporto fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Riguardo a quest’ultima (che esercita da sempre un forte potere seduttivo su tanti), è materia che non si presta a semplificazioni affrettate. La democrazia diretta ha del resto limiti noti non da oggi: in una delle prime sperimentazioni della Storia, per dire, la folla scelse senza troppi tentennamenti un certo Barabba.
Massimiliano Atelli
Citofonare per credere a Luis Rubiales.