Lettere

Crosetto su Vannacci: perfetto. Barbera su Allen: da applausi

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Non amo questo governo ma ho sentito un fantastico Guido Crosetto dire cose sensatissime su Vannacci. Mi devo preoccupare?
Maria Vattina

“Chiunque di noi ha il diritto di pubblicare un libro, anche un militare o un carabiniere. C’è un tema in più però che rende il carabiniere, il poliziotto o il magistrato diverso da me e da lei. Io e lei non possiamo restringere la libertà delle persone e usare la forza sulle persone a differenza delle forze armate, forze dell’ordine e magistrati. Queste persone hanno un dovere di terzietà in più. La democrazia crolla quando il cittadino non si sente sicuro. Se non funziona la gerarchia, crolla il pilastro della democrazia”. Così Crosetto da Nicola Porro. Perfetto.


Al direttore - Contestato a Venezia Woody Allen da un gruppo di femministe e femministi (c’erano anche degli uomini) al grido di “stupratore” e “abbasso il patriarcato”. Purtroppo, “spesso si contesta quello che non si capisce e solo perché non lo si capisce” (Mario Vassalle, “Polvere di stelle”, 2015).
Michele Magno

“Sono 25 anni che se la prendono con Woody Allen: è una persecuzione. E’ stato completamente scagionato da ogni accusa”. Standing ovation per Alberto Barbera,  direttore della Mostra del cinema di Venezia. Servirebbe un Barbera anche per difendere Jorge Vilda, l’allenatore della Nazionale femminile della Spagna campione del mondo, licenziato due giorni fa dopo aver preso le difese del presidente Luis Rubiales. Dal regno delle idiozie è tutto, a voi studio.


Al direttore - Lo spiega lei ad Annalisa Corrado che l’84 per cento della produzione elettrica fatta con le rinnovabili significa l’84 per cento del 20 per cento dei consumi totali di energia? Il restante 80 per cento è gas, petrolio, carbone. Perché l’elettricità è il 20 per cento del totale dei consumi energetici. La Corrado è ingegnere e dovrebbe essere a suo agio con i numeri.
Chicco Testa



Al direttore - “Se i figli non vanno a scuola pene più severe ai genitori”. L’ha detto Giorgia Meloni a Caivano: e Claudio Cerasa ha replicato: “Dacci oggi il nostro populismo quotidiano”. Subito accontentato: il Consiglio dei ministri sta preparando un provvedimento sul contrasto al disagio giovanile, in cui è prevista una pena fino a due anni di reclusione per i genitori che non mandano a scuola i figli. Sono oltre due secoli che si ragiona di delitti e di pene. Quando leggo di omicidi premeditati, perpetrati da chi poi non fa nulla per sfuggire alle proprie responsabilità, mi chiedo quale sentimento riesca a prevalere sulla certezza di passare in carcere quel che resta di vita. Certamente non c’è più nessuno (in Italia) che pensi che questo sentimento non prevarrebbe se il delitto prevedesse la pena di morte. La relazione tra gravità del delitto compiuto ed entità della pena che esso comporta definisce una società. Ritenere che esista una relazione diretta tra numerosità del delitto e afflizione della pena è una fallacia populista, a cui ricorrono sovente i governi per guadagnarsi un facile ma inefficace consenso. E’ invece utile, e non solo nel caso dei macabri delitti da cui ho preso spunto, approfondire il rapporto tra la forza del sentimento che induce a compiere atti che infrangono la legge e la coscienza delle conseguenze che potrebbero convincerli a non farlo. Nel contesto specifico in cui parlava la presidente, è probabile che ciò che prevale sul dovere di mandare i figli a scuola sia la perdita del ricavo per i loro “lavoretti”: è quindi doppiamente assurdo pensare di porvi rimedio infliggendo ai genitori un ulteriore costo. A far diventare razionale il mandare figli a scuola è solo la prospettiva di opportunità maggiori in numero e migliori in redditività per ragazzi che le scuole abbiano resi adatti a cogliere. E’ lo stato che può creare queste opportunità, è nel non avervi provveduto che consiste il “fallimento dello stato” di cui pure nella stessa occasione ha parlato la presidente. Solo a Caivano? La presidente non ignora certo che i test Pisa ci confinano tra paesi Ocse a cui crediamo essere superiori per storia, cultura, ricchezza; il numero di studenti non in grado di comprendere e restituire un testo in italiano è imbarazzante. Eppure continuiamo a eliminare, se non il merito, la valutazione dal vocabolario scolastico. Periodicamente, torna l’idea di togliere i voti alle superiori (mentre sono stati già tolti alle elementari). I test Invalsi, se proprio non li si può eliminare, diventano privi di valore. Agli insegnanti è di fatto impedito fare progressioni di carriera. Docenti o discenti, nel ministero dell’Istruzione e del Merito, il merito non li dovrà differenziare; per evitare tentazioni, non dovrà neppure essere misurato. Mentre, per flop delle assunzioni, è vuota una cattedra su due. A Giorgia Meloni avranno detto che il rapporto scuola-genitori-ragazzi esibisce criticità non solo là dove la scuola è in concorrenza con il lavoro. Magari questa criticità assume la forma del disinteresse: a ciò che la scuola insegna, a ciò che i ragazzi imparano o dovrebbero/potrebbero imparare, alle opportunità future, di studio o di lavoro. Genitori per cui mandare i figli a scuola è un dovere a cui adempiere e non qualcosa di cui interessarsi: perché quello è tutto per “il pezzo di carta” da ritirare alla fine. E allora vien da chiedersi se il conflitto tra dovere e interesse non sia di sua natura paragonabile a quello tra il sentimento che muove la mano di chi compie un delitto e la coscienza della pena che sconterà. Problema sociale, più che aumentare il timore della pena, è lenire quell’odio; per la stessa ragione, più che punire i genitori, sarebbe aumentare il loro interesse.
Franco Debenedetti
 

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