lettere al direttore
Sul bengalese che ha picchiato la moglie urge un dibattito diverso
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - La richiesta del pubblico ministero di Brescia che, come riporta la stampa, ha sollecitato l’esenzione da ogni responsabilità di un cittadino del Bangladesh che maltrattava e vessava, la moglie, una “schiava” lei racconta, perché tali comportamenti sono insiti nella cultura del paese di origine non è poi così priva di agganci culturali. Segue l’approccio per cui l’Italia dovrebbe diventare non un paese di cittadini ma di appartenenti a tribù culturali ciascuna delle quali segue la sua legge in una valorizzazione assoluta dell’intersezionalità delle minoranze oppresse, tipica del wokismo. Una scelta che potrebbe estendersi anche a casi come quelli della pachistana Saman. Tentativi di questo genere sono già in corso in Inghilterra con la proposta di istituzione di tribunali islamici almeno per gli affari famigliari. Anche il nostro legislatore potrebbe facilitare questo percorso liberatorio e rispettoso delle diversità instaurando tribunali della sharia per i residenti islamici al posto dei nostri tribunali civili e penali un po’ come in molte colonie c’era il sistema dell’Indirect Rule e cioè giurisdizioni separate per gli europei e per i locali. Un banco di prova di questa evoluzione potrebbe essere quella dell’uccisione di un africano albino perché nella cultura di alcune regioni di quel continente gli albini sono simboli di stregoneria di maleficio e spesso eliminati. Lo straniero appartenente a tale cultura che commettesse un delitto del genere in Italia dovrebbe quindi essere assolto. Qui finisce l’ironia.
Guido Salvini, magistrato
Il rischio che lei segnala, gentile Salvini, è reale. E la deriva inglese è inquietante. Ho letto però con interesse la richiesta di assoluzione formulata dal pm. Il passaggio equivoco c’è ed è evidente. Ma leggendo l’intero dispositivo e non decontestualizzando la frase sull’impianto culturale si capisce meglio forse il significato delle parole del magistrato, che forse non voleva trasformare la cultura dell’uomo del Bangladesh in un’attenuante rispetto alle sue azioni ma voleva affermare un concetto diverso: la capacità della donna offesa di ribellarsi a una condotta molesta da parte del marito solo dopo aver abbracciato i valori occidentali e scoprendo cosa vuol dire davvero sentirsi libere, “con la consapevolezza dei diritti che le appartengono”. Scrive il magistrato: “L’intolleranza della convivenza è maturata nell’ambito di una differenza culturale già esistente ma per lungo tempo tenuta sopita dalla PO medesima (la donna che ha denunciato, ndr), la quale aveva creduto di poter accettare l’impianto culturale della famiglia d’origine (…) per poi realizzare di non potersi conformare ai dettami socio-culturali e religiosi promananti dalla comunità bengalese e di volere altro per la sua vita”. Ciò che non è emerso dalle cronache sul caso in questione è che la richiesta di assoluzione non è stata formulata per ragioni di contestualizzazione culturale. Ma è stata proposta perché “non sono emersi fatti idonei a realizzare quella pregnante offesa dell’integrità psico-fisica della vittima” e che “l’unica circostanza che può dirsi provata, al di là di ogni ragionevole dubbio, è uno schiaffo avvenuto nell’agosto del 2019”. Ci sarebbero molti motivi per ragionare su questa affermazione (la parte offesa si è costituita parte civile e dunque l’evidenza penale non è sufficiente per arrivare a una condanna). Ma il tema da porsi, leggendo la richiesta del pm, non è solo quello da lei suggerito, che è reale, ma è anche un altro: l’opportunità o meno di condannare un uomo per maltrattamenti per uno schiaffo certo. Urge un altro dibattito.