Lettere
La mitomania di Elena Basile e due domande su Gian Carlo Caselli
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Gentile Cerasa, sono stato amico di Loris D’Ambrosio fin dal comune impegno contro il terrorismo nero (con Mario Amato) e posso testimoniare del suo altissimo valore umano, professionale e istituzionale. Il suo cuore fu sicuramente stroncato dallo straordinario stress causato dalla prolungata e miserabile gogna mediatica, orchestrata contro di lui anche al fine di screditare indirettamente la figura del presidente Napolitano. Egli è stato davvero “vittima del dovere”. Condivido perciò la tristezza manifestata nella seduta del Csm dalla presidente Cassano, il cui coraggioso e isolato gesto di dissenso Le fa onore!
Giovanni Canzio
Avremo la presidente Cassano oggi a Firenze, alla festa del Foglio, e la ringrazieremo anche a nome suo. E nostro.
Al direttore - Negli ambienti diplomatici di Stoccolma si vocifera che la Svezia abbia deciso di entrare nella Nato dopo il soggiorno dell’ex (non) ambasciatrice Elena Basile.
Michele Magno
C’è una parola che deriva dal greco antico. Una parola formata da un termine che significa favola (mythos) e da una che significa follia (mania). Una parola famosa, che mi viene spesso in mente in questi giorni mentre scanalo in tv, ma non ricordo davvero quale sia.
Al direttore - Non sappiamo, almeno ora, quel che potrà accadere a livello economico e finanziario in Europa e a livello globale, a seconda di come evolverà la guerra in Israele dopo la mostruosa barbarie dei miliziani di Hamas – da distinguere dai civili palestinesi – e l’assedio di Gaza, con ostaggi e vite innocenti che sono in grave pericolo. Ma, pur affrontando qui un piano che viene ovviamente a distanza enorme dalle vite umane stroncate, e da quelle che purtroppo saranno ancora sacrificate, si pone l’esigenza – che, ripeto, viene dopo altre prioritarie scelte politiche riguardanti il “che fare”, innanzitutto da parte dell’Unione di fronte al conflitto che si affianca a quello in Ucraina – di mettere a posto ciò che ancora è sospeso nel campo delle decisioni istituzionali. Per l’Italia, si tratta di decidere sul Mes, di agire, per quel che sarà possibile, per arrivare a un nuovo Patto di stabilità sulla linea della proposta della Commissione Ue, ma eliminando alcuni punti non affatto condivisibili, di redigere una legge di Bilancio che tenga conto delle ulteriori difficoltà incombenti, di accelerare l’attuazione del Pnrr, di predisporre tutto quanto è necessario per rafforzare la sicurezza nelle città. In previsione di una situazione che potrebbe avere caratteri di emergenza – quod Deus avertat – è imperativa un’adeguata preparazione.
Angelo De Mattia
Al direttore - L’ex pm Gian Carlo Caselli continua a citare sul Fatto quotidiano un mio articolo pubblicato sul Foglio sostenendo che in questo avrei “giudicato positivamente” il provvedimento con cui la giudice Apostolico non ha convalidato il trattenimento di tre migranti tunisini. Tutto ciò, come ben saprai, non è mai avvenuto, ma è il caso di chiarirlo ai nostri lettori. Nell’articolo, pubblicato il 3 ottobre, venivano riportate le motivazioni espresse dalla giudice nel suo provvedimento, con il semplice scopo di sottolineare che queste motivazioni (contestabilissime in sede giudiziaria) non c’entravano niente con quelle evocate dalla premier Meloni, che aveva parlato di “motivazioni incredibili” (come le caratteristiche fisiche del migrante volute dai “cercatori d’oro” o la natura della Tunisia come paese non sicuro). In altre parole, la giudice non ha mai sostenuto ciò che Meloni le ha contestato in maniera strumentale. Ciò non vuol dire, però, affermare la bontà del provvedimento giudiziario, sul quale infatti diversi giuristi (intervistati dal Foglio, anche nell’edizione di oggi) esprimono le proprie critiche. Se le modalità con cui Caselli legge e interpreta gli articoli sono le stesse con cui nel corso della sua carriera ha interpretato gli articoli del Codice di procedura penale viene da farsi qualche domanda.
Ermes Antonucci
Siamo in due a farcela. E non solo per lui.
Al direttore - Governare, si sa, è scegliere tra ciò che è facile e ciò che è giusto. E senza scomodare Antigone, governare significa rinunciare, anche a se stessi. Significa dire no, anche con dolore. Governare non illumina. Il potere è buio. Tornano a Venezia dopo troppi anni di assenza “I due Foscari” di Verdi, ed è subito, appunto, il buio del potere. Un potere che schiaccia l’uomo e il padre, quel Francesco Foscari che oggi riposa in Santa Maria Gloriosa dei Frari, poco a destra dall’Assunta del Tiziano. Un uomo e un padre scelgono, insieme, di non salvare un figlio: di Venezia il prence in ciò poter non ha. Una riflessione dolorosa, quella dei Foscari, sull’essenza del potere. Sulla rinuncia e sulla privazione, sulla scarnificazione dei valori che cedono al potere. Beninteso, il potere, nelle società democratiche, trova giustificazione nella Grundnorm (ah, Kelsen!), e le rinunce del potere sono il rispetto della Legge (con la L maiuscola). Ma è il dilemma di Antigone, è il rapporto tra uomo e potere, il rapporto tra essere e dover essere. E’ il buio, appunto. Una lezione, quella del potere, troppo spesso dimenticata ai giorni nostri. Ma d’altro canto, chi legge più Sofocle. A cosa serviranno mai queste lingue morte. Sui social c’è già tutto quel che serve. Ed è forse questa la riflessione che può e deve fare la politica: nei Foscari (ma la materia prima viene da Byron) il protagonista soccombe al buio del potere. Sarà una costante in Verdi: così, con sfumature diverse, anche in “Macbeth”, nei “Vespri siciliani”, nel “Ballo in maschera”, in “Don Carlo”, in “Aida”, il potere riesce sempre a prevaricare l’uomo. Ecco per noi, uomini e donne del 2023, per noi figli del positivismo kelseniano, a maggior ragione per noi che la politica la facciamo, il buio del potere non può essere un’opzione. Forse troppo spesso lo dimentichiamo. Ma veniamo alla musica. Cast, come direbbe Foscari, oltre ogni umano credere: Luca Salsi, già dieci anni fa a Roma doge con Muti, è sempre più il riferimento verdiano che da anni mancava alla sua generazione (e ai nostri teatri). E’ il Foscari dei nostri anni (ma anche Boccanegra, Jago, Posa, e via così continuando). Francesco Meli, anche lui allora con Muti a Roma, nel pieno della maturità vocale, mette in scena uno Jacopo dolente e terribilmente umano: nostro Signore (o madre natura, a scelta) lo ha dotato di uno strumento unico, che amministra in modo sempre più intelligente. Bravissimo. Anastasia Bartoli è energia allo stato puro, una voce torrenziale, bellissima, sicura, più disciplinata di qualche tempo addietro (a dimostrazione che cantare il Rossini serio è una medicina per ogni voce), mai banale nell’interpretazione. A occhi chiusi non le daresti la sua giovane età (è una signora, e quindi l’età non si dice). Ha fatto passi da gigante, converrà tenerla d’occhio: sovrintendente avvisato, mezzo salvato. Sebastiano Rolli concertava con piglio risorgimentale un’opera difficile, sfilacciata, debolissima nella struttura scenica ma musicalmente (Paolo Isotta dixit) tra le più belle di Verdi. Fortunato Ortombina, verdianamente illuminato sovrintendente della Fenice, non avrebbe potuto mettere in piedi un cast migliore. Chapeau. Menzione speciale per orchestra e, soprattutto, coro della Fenice: dovremmo però smetterla di sorprenderci che in Italia cori e orchestre siano di questo livello. Un po’ di orgoglio, perbacco! Regia non dannosa, ma decisamente dimenticabile.
Federico Freni