lettere al direttore
Se l'egemonia di destra è appropriarsi del patrimonio di sinistra
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Non è tanto il discorso di Milei a Davos (che è un medley ben congegnato dei classici della cultura liberale), ma il fatto che in Italia un leader che esalta la libertà sia ancora oggi raccontato come “un leader dell’estrema destra” (Repubblica e un po’ tutti). E si può scrivere, leggere, dire, sentire in giro una cosa del genere – una cosa che starebbe bene tra le pagine del mondo al contrario di Vannacci – perché qui, ancora oggi, non esiste uno straccio di cultura liberale. Non si ha idea di cosa sia. Non si incontrano pensatori liberali quasi mai, né a scuola né all’università. Nessuno vi parlerà di Freedman, von Hayek, Mises, Rand, Nozick, Scumpeter, Isaiah Berlin, Sergio Ricossa, mentre sarete tramortiti a colpi di Pasolini, Foucault, Butler, Edward Said, decostruttori vari della subalternità e fanatici di ogni tipo, che hanno tutti in comune una cosa (oltre a scrivere male): una straordinaria diffidenza o ostilità verso la libertà dell’individuo. E così esaltare la libertà diventa una cosa di “estrema destra”. Si venera l’antifascismo, si blocca il paese per il braccio teso, ma non si difende, non si esalata, non si educa alla libertà, e così il discorso resta sempre a metà, non concluso. Bello, ma fino a un certo punto. Va bene essere “anti”, ma bisogna anche essere “per”. Perché tra il discorso di Milei a Davos, e i volantini dell’Anpi per il 27 gennaio, non dovremmo avere molti dubbi su chi tra i due abbia qualcosa a che fare con “l’estrema destra”.
Andrea Minuz
Contro il fascismo, di oggi e di ieri, l’unica arma è la libertà. E chi ama la libertà del mercato diventa inevitabilmente un pericolo per tutti i fascisti di oggi, di ieri e di domani.
Al direttore - Caro Cerasa, non puoi svegliarci così. Quell’editoriale sparato in prima pagina è da brividi. Da bambino consideravo Davos una parolaccia; maledicevo da ragazzo cresciuto Bill Gates che ci aveva fatto lasciare penna e calamaio per computer all’epoca complicatissimi; da senior non sopporto le ipocrisie della von der Leyen; adoro Trump e godo a vedere la sinistra che rosica da pazzi col “rischio” di una sua rielezione. Non diffamate la Meloni. Secondo me sta fregando tutti prendendo in giro gli antisovranisti. Oppure dici che al risveglio scopro un altro mondo? Un saluto gaudente (non romano perché sei vivo).
Francesco Storace
Giorgia sarebbe d’accordo con te, Meloni non tanto.
Al direttore - Mi ha fatto piacere leggere sul Foglio di giovedì il ricordo di Roberta Tatafiore, morta suicida a Roma nell’aprile del 2009. La sua voce è stata importante nel femminismo italiano e ci è molto mancata in questi anni. Abbiamo lavorato insieme nella redazione di Noi donne, dove lei è stata giornalista appassionata e rigorosa per oltre dieci anni. Le volevo bene, eravamo amiche. Per questo forse non sono mai riuscita a leggere il diario del suo suicidio.
Franca Fossati
Al direttore - Ho letto con interesse il suo articolo “L’egemonia culturale? Una gran truffa” e mi permetto di inviarle alcune considerazioni sul dibattito scaturito da vari mesi in merito alla “nuova egemonia culturale della destra”. Approfitto di queste righe per provare a toccare alcuni punti su un tema tanto dibattuto quanto divisivo come la cultura di destra e il suo rapporto con Antonio Gramsci. Anzitutto, come spiega Giuseppe Prezzolini nella sua intervista sulla destra con Claudio Quarantotto, non esiste una singola cultura di destra ma varie culture delle destre; c’è una destra conservatrice e una destra sociale, una destra cattolica e una destra liberale, una destra tradizionalista e perfino una destra rivoluzionaria. Concepire perciò la cultura di destra come un monolite sarebbe sbagliato ed è proprio l’eterogeneità dei pensatori la sua forza. Un elenco significativo lo ha fatto Giovanni Raboni in un articolo pubblicato proprio sul Corriere della Sera il 27 marzo 2002 intitolato “I grandi scrittori? Tutti di destra” di recente ripubblicato in un pamphlet dall’editore De Piante in cui Raboni sottolinea come “moltissimi tra i protagonisti o quanto meno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del ’900 siano collegabili a una delle diverse culture di destra” facendone un elenco “Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Croce, D’Annunzio, Drieu La Rochelle, T.S. Eliot, E.M. Forster, C.E. Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco Jouhandeau, Junger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras, Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. Yeats”. Basterebbero già questi nomi per chiedersi se la destra abbia bisogno di appropriarsi di un pensatore estraneo alla sua storia come Antonio Gramsci. In tal senso ritengo si sia creato un equivoco. Come spiega giustamente Marcello Veneziani, l’intento del mondo conservatore non è ascrivere Gramsci al proprio pantheon, quanto conoscere e approfondire il concetto di egemonia culturale teorizzato dal pensatore sardo che la sinistra ha saputo fare proprio e che la destra per decenni ha ignorato. Se infatti è esistita (ed esiste) un’importante tradizione culturale di destra, ciò che è mancato alla destra – dovendo fare una doverosa autocritica – è una politica culturale e un’organizzazione della cultura. Tale politica culturale si compie non sostituendo un’egemonia culturale con un’egemonia di senso opposto, bensì favorendo il pluralismo e una maggiore libertà. Ciò può avvenire non solo con un (pur necessario) spoils system bensì avendo ben chiara una visione valoriale e in mente una prospettiva di medio-lungo periodo. La cultura non si fa (solo) con il pubblico ma chi la realizza sono le realtà in prima linea: le case editrici, le riviste, le associazioni sui territori, i teatri, le fondazioni, gli enti locali. Realtà che c’erano prima dell’attuale contesto politico e che ci saranno dopo, fatte da uomini e donne coraggiose che hanno scelto, ognuno nel proprio ambito, di abbracciare un’idea di cultura libera, ancor prima che di destra. Sebbene conoscere e leggere Gramsci sia imprescindibile per la destra proprio per capire quel concetto di egemonia culturale che ha rivoluzionato la cultura italiana, è altresì importante cercare di valorizzare autori e pensatori conservatori non sufficientemente ricordati, rimossi, dimenticati. Quest’anno per esempio ricorrono i trentacinque anni dalla scomparsa di Augusto Del Noce e i sessant’anni dalla morte di Ardengo Soffici. Se non si promuovono ora figure e scrittori per decenni relegati ai margini proprio perché estranei alla cultura marxista e comunista, difficilmente potrà farlo chi si è formato sul pensiero gramsciano e continua ad avere ruoli centrali nella gestione della cultura italiana.
Francesco Giubilei
presidente Fondazione Tatarella
Al direttore - La cultura non merita di essere associata a parole che evocano potere, egemonia, occupazione, sinonimi purtroppo di disvalori come la guerra o la violenza. La cultura, se è tale davvero, ispira valori lontani da questa visione, da questo linguaggio, da queste parole. Le parole non sono importanti, sono pesanti. Con una parola si può salvare una vita o finirla. La cultura è come l’ascia primordiale può essere usata come strumento di vita, di lavoro per costruire una casa, una barca, un’opera d’arte o per distruggere un ponte, un’abitazione, uccidere un uomo. Occorre quindi, nel maneggiarla, avere il massimo dell’attenzione e della responsabilità. E più si ha potere più si ha responsabilità, maggiore deve essere la prudenza nel suo uso. A proposito di parole, richiamo infine quelle di Papa Francesco che, in occasione di un incontro con alcuni esponenti del mondo delle arti e della cultura, ci ha invitato a cambiare il mondo usando la cultura, aggiungendo che essa, la cultura, non va occupata ma va abitata, vissuta, inverata, solo così avremmo fatto davvero un servizio utile all’umanità ognuno nei suoi ruoli piccoli o grandi, ma tutti con la stessa responsabilità e lo stesso spirito di servizio quali costruttori di bellezza e pace di cui tutti abbiamo bisogno.
Angelo Argento
A proposito di egemonia. Mi fanno notare che nella lettera interessante che ci ha inviato ieri il ministro Gennaro Sangiuliano, detto Giuliano Sangennaro da una conduttrice del suo vecchio tiggì, c’è un fatto interessante. Il ministro, per dimostrare di essere in pista nella promozione e nella monetizzazione della cultura italiana all’estero, cita una serie di iniziative portate avanti dal suo ministero. La maggior parte di queste, però, sono misure che Sangiuliano non ha attivato ma ha semplicemente ereditato. Qualche esempio? Il progetto di recupero dell’ex Real Albergo dei Poveri, lo sviluppo delle attività della Biennale, il recupero del sistema dei forti genovesi, il Museo del Mediterraneo, il progetto della Biblioteca europea di Informazione e Cultura sono tutti stanziamenti del piano complementare al Pnrr, firmato il 6 maggio 2021 dal precedente governo. Il raddoppio della Pinacoteca di Brera è stato vagliato con un decreto (il numero 60) del 14 febbraio 2022. Il Museo della lingua italiana di Firenze è stato varato con un decreto il 10 agosto 2020. Il progetto del Museo dell’Arte digitale di Milano è stato approvato con un decreto (il 337) il primo ottobre 2021. Il recupero mussale dell’ex Spolettificio di Torre Annunziata è stato previsto nel cosiddetto “Cis Pompei” sottoscritto il il 17 maggio 2022. La rigenerazione di Capodimonte fa parte del Pnrr ed è stata varata il 19 maggio 2022 con il decreto numero 534. Discontinuità con molto giudizio. E l’egemonia della destra, in fondo, è anche qui: appropriarsi del patrimonio della sinistra. E non solo con Gramsci, bellezza.
Al direttore - Si può sapere perché fa scandalo l’affermazione del vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura Cesare Pinelli: “Il Csm non è una terza Camera”? Forse lo è? E si può davvero negare che in passato il Csm abbia deragliato dalla sua funzione costituzionale? Questi ipocriti scandali al marzapane: che noia, che barba.
Valter Vecellio
Al direttore - Ormai è tardi, ma i democratici avrebbero dovuto candidare Antony Blinken alla presidenza degli Usa (con tutto il rispetto che merita Biden).
Michele Magno
Al direttore - Lo spettacolo che hanno dato alcuni governatori di Banche centrali, Christine Lagarde in testa, affrettandosi a fare dichiarazioni sui tassi di interesse poche ore prima che scattasse la fase di massimo riserbo (7 giorni prima della riunione del Consiglio direttivo della Bce del 25 gennaio) ricorda le dichiarazioni e i comizi nelle ore immediatamente precedenti al silenzio elettorale. L’unico che giustamente si è astenuto dal farlo e ha citato le ragioni istituzionali del suo silenzio è stato il governatore Fabio Panetta. In più, le dichiarazioni che si sono lette, sempre con “in primis” madame Lagarde, hanno dimenticato, parlando di tassi, anche nella seconda parte e alla fine dell’anno in corso, quanto vanno ripetendo sulle decisioni che si prenderanno solo sui dati, abbandonando la “forward guidance”. Poi, dimenticando pure che la priorità è l’attuazione dell’Unione bancaria, manchevole ancora di due pilastri – un adeguato assetto di organi, fondi e procedure della risoluzione di banche e l’assicurazione europea dei depositi – la Lagarde ha affermato che bisogna realizzare subito il mercato unico dei capitali. Forse che si sono trasferiti gli schemi deteriori dei rapporti politici anche ai vertici di banche centrali? Con i migliori saluti.
Angelo De Mattia