Dario Parrini (Ansa)

Lettere

Premierato e rischi, o meno, per la democrazia: ci scrive Parrini

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Proprio nei giorni in cui spuntano ogni mattina i funghi allucinogeni, che tanto inebriano i media della sinistra, dei sempre “nuovi” addebiti contro il presidente della Liguria, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha rilanciato su Repubblica l’idea che l’imparzialità della pubblica accusa è un principio garantista mentre con la separazione delle carriere si finirebbe col trasformare il pm in un avvocato dell’accusa. Questo è un punto cruciale. Dobbiamo credere all’imparzialità di chi svolge l’indagine e arriva alla richiesta di rinvio a giudizio di un indagato? Se hanno ragione Cantone, e l’Anm, e la sinistra tutta, schieratissima contro la separazione delle carriere, dovremmo domandarci a cosa servono gli avvocati e il giudice: il vero processo è già stato svolto, il pm ha ricercato anche le prove che scagionano l’indagato e, nonostante tutti gli strumenti e tutte le polizie di cui dispone, non le ha trovate. Se ne registrino le conclusioni. In un sistema liberale, quello di tutti gli altri ordinamenti giuridici degli stati democratici, l’unica vera garanzia costituzionalmente proclamata è la terzietà del giudice, non la presunta imparzialità di un pm. Questi non è una funzione, ma un essere umano – il quale non può essere sottratto per legge a possibili pregiudizi e passioni – che svolge la funzione dell’accusatore. E’ troppo chiedere che la magistratura, almeno questa, rilegga l’art. 111 della Costituzione dove si statuisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Un giudice terzo, che ascolta l’avvocato dell’accusa e quello della difesa, e sulla base del loro contraddittorio decide la sentenza, è la sola e più solida premessa di una giustizia giusta. Non altro, non una finzione giuridica che vorrebbe assoggettarci all’ossimoro di una “parte imparziale”.
Marco Taradash

L’opinione di Cantone è perfettamente legittima e Cantone è anche un magistrato non sospettabile di essere un nemico del garantismo. Ma quello che sfugge a chi sostiene la tesi che separare le carriere significhi voler trasformare i pm in avvocati dell’accusa è un fatto semplice. I pm già oggi si muovono spesso come avvocati dell’accusa e non serve ricordare a Cantone quanti sono i pm che dimenticano come il nostro sistema processuale assegni al pubblico ministero il compito di acquisire anche le prove a favore dell’imputato. Separare le carriere forse non aiuterebbe i pm a essere migliori rispetto a oggi ma aiuterebbe i giudici a essere meno appiattiti sulle tesi dei pm e a offrire al sistema giudiziario più garanzie di terzietà, di indipendenza, di imparzialità. Non mi pare poco. 


 

Al direttore - Massimo Giannini su Repubblica critica severamente quello che definisce “il menù” di Nordio, “al quale si aggiungono – scrive – i piatti più forti: la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici” e “un secondo Csm”. Gli obiettivi, per Giannini, “sono chiari: punire le toghe e disarmare la magistratura, riportandola in modo diretto o indiretto sotto il controllo della politica. Nulla che aiuti i cittadini-utenti”. Per l’editorialista di Repubblica, dunque, avere un giudice davvero terzo, in grado di contrapporsi allo strapotere dei pm, garantendogli di non finire in galera, o ai domiciliari, senza una reale e solida necessità, non aiuterebbe i cittadini-utenti. Se lo dice lui! A Giannini fa eco Raffaele Cantone. Intervistato da Repubblica, il procuratore di Perugia sottolinea: “Credo che l’attuale assetto dei poteri garantisca molto di più l’imparzialità di quanto non la garantirebbe la separazione delle carriere. Il pm separato dal giudice si trasformerebbe sempre più in un avvocato dell’accusa e sempre meno in un organo che svolge funzioni imparziali, come richiede invece l’attuale codice di procedura penale che impone al pm di ricercare anche le prove a favore dell’imputato”. In effetti le procure italiane sono piene di pm “imparziali” indaffarati a ricercare anche le prove a favore dell’imputato. Basta dare un’occhiata dalle parti di Milano, Palermo (almeno nel passato) e anche in qualche procura pugliese. Come non dare ragione, dunque, a Giovanni Fiandaca: “Ho conosciuto e conosco non pochi giudici che posseggono una mentalità accusatoria, analoga a quella del pm – afferma il giurista –, il problema è di formazione professionale, e cultura”. Campa cavallo. Però da qualche parte si dovrà pure iniziare. 
Luca Rocca


 

Al direttore - Il riformismo è anche e soprattutto stare al merito delle questioni, senza anatemi indiscriminati e banalizzazioni indebite. Questo ho fatto intervenendo in Senato sul disegno di legge 935 Meloni-Casellati. E questo chiederei che si facesse quando, come in un articolo apparso ieri su questo giornale, si dà un giudizio sulle mie posizioni. Parlando nell’Aula di Palazzo Madama ho spiegato, su basi fattuali e non ideologiche, perché il progetto di riforma costituzionale della maggioranza è dannoso e impoverisce la nostra democrazia. Riepilogo velocemente. 
Primo. Si trasforma l’Italia nell’unico paese al mondo caratterizzato dalla coesistenza tra un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento e un presidente del Consiglio eletto dal popolo, cosa che schiaccia e indebolisce eccessivamente il capo dello stato, ovvero l’istituzione che è di gran lunga la più stimata e apprezzata dagli italiani. 
Secondo. Si trasforma l’Italia nell’unico paese al mondo caratterizzato da un’elezione del Parlamento ridotta a uno strascico dell’elezione diretta del capo del governo. Così facendo viene formalizzato e cristallizzato un regime di subalternità del legislativo all’esecutivo che non esiste in nessuna democrazia, nemmeno in quelle presidenzialiste. A questo risultato deprecabile si arriva partendo dal presupposto farlocco e semplicistico che sia possibile replicare su scala nazionale la forma di governo di regioni e comuni. Ma questa replicabilità non esiste per la grande differenza intercorrente tra istituzioni centrali e istituzioni territoriali in termini di competenze, poteri e status costituzionale. A rendere vuoto lo slogan “facciamo come nei comuni e nelle regioni” è in primo luogo la presenza a livello nazionale del presidente della Repubblica nonché del potere parlamentare di revisione costituzionale e di elezione di un terzo dei componenti dell’organismo supremo di controllo di costituzionalità delle leggi. L’elezione a strascico di deputati e senatori produce un indebolimento eccessivo del Parlamento, già oggi soffocato dal fatto che nella produzione normativa vi è una invadenza del governo legata a un utilizzo abnorme dei decreti legge e delle leggi delega. 
Terzo. Si è proceduto mostrando una plateale e inquietante indifferenza verso il problema dei contrappesi. Un problema costituzionalmente cruciale. Alcuni esempi: non si è costituzionalizzata la regola della maggioranza assoluta per l’elezione del premier, il che rende possibile l’arrivo a Palazzo Chigi di un premier di minoranza che avrà tanto potere anche se sarà poco legittimato: chi vince la presidenza del Consiglio, anche se eletto da una minoranza, sulla base del ddl 935 si prende in automatico Palazzo Chigi, la maggioranza assoluta di un Parlamento formato con le liste bloccate (grazie al premio di maggioranza), la guida delle Camere e anche il Quirinale qualora l’elezione presidenziale cada durante il suo mandato primoministeriale. La maggioranza ha rifiutato di bilanciare l’elezione diretta del capo del governo con adeguati contrappesi, realizzando perciò una concentrazione eccessiva del potere: Meloni e Casellati hanno infatti detto no agli emendamenti del Pd rivolti a inserire norme costituzionali per contrastare l’abuso della decretazione d’urgenza. Hanno detto no alla proposta di incrementare i quorum per eleggere primari organi di garanzia come il presidente della Repubblica e i presidenti delle Camere. Hanno detto no alla proposta di innalzare il quorum per modificare i regolamenti parlamentari. Hanno detto no alla proposta di dare alle minoranze la possibilità di ricorso diretto alla Corte costituzionale come avviene in Spagna, in Germania e in Francia.
Il punto centrale, se vogliamo fare una discussione concreta e credibile, è quindi il seguente: queste cose che io ho segnalato sono vere o sono false? Se sono vere, e sono vere, sono o non sono dei gravi difetti? Io penso siano dei gravi difetti: è evidente che una concentrazione eccessiva del potere produce squilibri costituzionali del tutto indesiderabili. Ed è evidente che una democrazia con forti squilibri costituzionali è una democrazia più povera. Questo io ho detto in Senato. Non ho parlato di dittatura in arrivo. E non ho parlato di fascisti alle porte (né su Marte). Ho parlato di fatti concreti difficilmente controvertibili. E ho ricordato che una proposta per aumentare la stabilità degli esecutivi e correggere le storture del bicameralismo italiano senza liquidare la forma di governo parlamentare noi l’abbiamo. E’ una proposta seria che per quanto riguarda il rapporto fiduciario e il potere di scioglimento guarda al modello tedesco. E che per razionalizzare il bicameralismo punta a rafforzare le competenze del Parlamento in seduta comune.

Dario Parrini, senatore del Pd

Gentile Parrini, grazie della sua replica. Lei, a Palazzo Madama, ha detto quanto segue: “La nostra democrazia con questa riforma diventa più debole e più povera, altro che una democrazia più forte; avviene esattamente il contrario”. Dire che con questa riforma la democrazia è più debole significa dire che questa riforma costituzionale aggredisce la nostra democrazia. A me sembra che, al netto dei difetti del premierato, avere una riforma che permette di avere un governo più stabile, che consente a un Parlamento di avere coalizioni meno ballerine, che consente di dare agli elettori maggiori poteri per decidere a chi affidare la guida del governo aiuti la democrazia a essere più forte di quello che è, combattendo tutto ciò che rende il volere democratico, per così dire, aleatorio: non governabilità, parlamentarismo esasperato, instabilità,  disordine. L’estremismo si può combattere, caro Parrini, anche senza trasformare la fragilità delle maggioranze nell’unico argine contro il cattivo di turno.
 

Di più su questi argomenti: