Lettere
I sospetti non bastano per fare un processo, diceva Giovanni Falcone
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - La prevedibile spettacolarizzazione dei più recenti fatti di cronaca impone una presa d’atto: la giustizia penale mediatica − come ricordato ieri da Claudio Cerasa − ha ormai sviluppato un vero e proprio format; un format di successo, premiato dal pubblico, nel quale si mescolano elementi di informazione, inchiesta, spettacolo, dibattito e fiction e si consolidano prassi procedurali che delineano una sorta di “codice del processo mediatico” al quale ci stiamo inesorabilmente abituando. Prima le indagini e poi il processo si svolgono sui mezzi di informazione e sui social, prescindendo dalle regole di rito (le prove, l’al di là di ogni ragionevole dubbio) e privilegiando quelle dello show (il verosimile, il possibile, il più convincente sotto il profilo dell’audience); non si giudica più il fatto ma l’individuo, travolto da informazioni di ogni genere, talvolta decontestualizzate e prive di un riferimento temporale, che assumono rilievo in ragione della loro idoneità a solleticare la morbosa curiosità dei follower. Eliminando i tempi lunghi, ma fisiologicamente indispensabili della giustizia processuale, la decisione popolare, resa dal tribunale dell’opinione pubblica in assenza di qualunque tipicità del fatto e mescolando diritto, morale, buon senso e senso comune (il reato è ciò che appare tale), anticipa quella del giudice, destinata ad arrivare troppo tardi, quando non vi è più alcun interesse a conoscerla, e a essere percepita, se assolutoria, come sorprendente, sbagliata e ingiusta. Non a caso, oggi, nel degradato discorso pubblico, “giustizia è fatta” solo quando un processo si conclude con una condanna. Questa deriva si fonda sulla impropria sovrapposizione di piani, quello dell’informazione e della giustizia, profondamente diversi quanto a tecniche espressive (semplificato e sensazionalistico il linguaggio giornalistico; freddo, tecnico, talora criptico quello giudiziario) e a tempi di reazione (frenetici quelli dei media, imprevedibili quelli delle indagini e del processo), che alimenta effetti perversi e criticità: dallo stravolgimento di categorie e funzioni del processo penale alla distorsione dei rapporti tra fonti giudiziarie e giornalisti, passando per l’inevitabile condizionamento dei soggetti coinvolti, esposti al clamore e all’impazienza con cui gli organi di informazione raccolgono notizie alla ricerca di un colpevole costi quel che costi. Inutile aggiungere che un “modello processuale” di questo tipo compromette i diritti costituzionalmente garantiti per gli imputati, la corretta dialettica tra accusa e difesa, la serenità psicologica dei giudici, amplificando le sofferenze per le famiglie delle vittime e stravolgendo la valutazione dell’attività giudiziaria nel suo complesso, tanto del pubblico ministero quanto della magistratura giudicante; senza dimenticare le ricadute reputazionali, difficilmente riparabili, e l’irrimediabile svilimento della dignità del singolo, ma anche del ruolo della stampa.
Cristiano Cupelli
Quando c’è un’inchiesta che fa rumore e colpisce l’immaginario dell’opinione pubblica, il giornalista ha due strade per confrontarsi con il tribunale del popolo. Trovare ogni giorno uno schizzo di fango che possa permettere di assecondare la giuria del tribunale o cercare ogni giorno di sfidare il tribunale del popolo con la forza del dubbio. Per fare un processo, diceva Giovanni Falcone, ci vuole altro che sospetti e bisogna distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie. Nel nostro piccolo, sapete da che parte stiamo.
Al direttore – "Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo. E’ veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte. Gli esiti dei processi, a cominciare da quelli di mafia, celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell’ordinamento, sono peraltro sotto gli occhi di tutti”. (Giovanni Falcone, intervista a Mario Pirani, Repubblica, 3 ottobre 1991). Poscritto: “Nemo propheta acceptus est in patria sua" (Luca 4, 24).
Michele Magno