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Giornali e magistratura: è da qui che s'inizia a cambiare la giustizia

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Come provare a invertire la tendenza – all’apparenza inarrestabile – a una giustizia penale (sempre più) mediatica e al relativo format, ben ripagato in termini di audience, al quale inesorabilmente ci stiamo rassegnando? Non basta la solita invocazione all’intervento legislativo: tante e sostanzialmente disapplicate le norme già vigenti in materia. Occorre cambiare strategia e provare piuttosto a investire, in chiave sistemica e reticolare, sul “fattore culturale” in una duplice prospettiva: da un lato, incrementando la sensibilità tecnico-giuridica degli operatori dell’informazione giudiziaria, ad esempio rendendo obbligatori percorsi formativi di tecnica e linguaggio processuale; del resto, il cronista giudiziario assume un ruolo peculiare e delicato – informare sull’amministrazione della giustizia –, che non può prescindere, per spiegare al lettore la valenza processuale o meno di quanto pubblicato, da un consolidato bagaglio di competenze tecniche. Dall’altro, in termini di più ampio respiro, promuovendo la condivisione fra i protagonisti (magistrati, avvocati, giornalisti) di princìpi tutti egualmente importanti: il diritto/dovere di cronaca, certamente, ma anche l’obbligo di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo, tra cui reputazione e presunzione di innocenza, inverando quell’etica della comunicazione processuale molto spesso invocata e assai di rado attuata.
Cristiano Cupelli


Tutto giusto. Ma la vera chiave, purtroppo, per cambiare la giustizia italiana, e per ricordare al partito delle procure quali sono i suoi limiti e cosa vuol dire non esondare, non passa da una rivoluzione culturale imposta dalla politica ma passa da una rivoluzione interna che riguarda il mondo della magistratura e il mondo del giornalismo. Il circo mediatico si può provare a limitare con le leggi, con le restrizioni, con le regole, ma se ci si pensa bene non ci sarà mai nulla di più efficace di un magistrato che denuncia gli orrori del circo mediatico, e li combatte, e di un giornalista che sceglie di denunciare chi considera questo mestiere nobile solo quando ci si trasforma nella buca delle lettere delle veline delle procure. 



Al direttore - Appena si è saputo della vicenda di Ilaria Salis è iniziata la campagna mediatica e politica contro Giorgia Meloni che, essendo “amica” di Orbán era la sola in grado di intervenire a suo favore.   A Salis (Ilaria per gli amici) sono stati concessi gli arresti domiciliari. Ma i ministri della Giustizia e degli Esteri sono stati accusati di non aver contribuito.   Delle due l’una: o gli amici di Salis sono dei bugiardi ingrati, oppure la magistratura ungherese non è   peggiore della nostra a cui Elly ha portato a Palermo l’acqua con le orecchie.  
Giuliano Cazzola  


Al direttore - Oggi ho partecipato alla cerimonia di consegna delle borse di ricerca di Fondazione Veronesi, ospitata dall’Università Statale di Milano. Si tratta di un appuntamento istituzionale, di un’occasione per celebrare la ricerca scientifica italiana. L’evento si apre con due rappresentanti del collettivo universitario, chiamati sul palco a spiegare il perché della loro protesta, che si lanciano in un monologo sul “genocidio” dei palestinesi, sul dovere morale di combattere il sionismo e interrompere i rapporti con le università “militari” israeliane e invitano tutti a un momento di riflessione sulla nakba, ovvero la catastrofe, ovvero la nascita dello stato d’Israele. I due ragazzi scendono dal palco tra qualche applauso, ringraziati dalla conduttrice per le loro importanti parole. Il microfono passa poi a Paolo Veronesi e alle diverse autorità presenti. Tutti parlano dell’importanza della ricerca, dei suoi incredibili progressi, del ruolo della conoscenza per costruire una società migliore. Nessuno dice una parola per dissociarsi dalle parole con cui si è aperta la cerimonia, che sono l’opposto dello spirito scientifico che si vuole celebrare. All’uscita chiedo a una delle organizzatrici perché abbiano fatto iniziare l’incontro in questo modo. Mi guarda seccata: perché le ha dato fastidio? Molto, le dico. Beh, mi risponde, era giusto dare voce a questi ragazzi e poi se non l’avessimo fatto magari avrebbero potuto rovinare la cerimonia. Io credo che più di così non si sarebbe potuta rovinare, ma temo, ed è questo che mi ferisce, di essere stata l’unica a pensarla in questo modo. Come dice Liliana Segre: l’indifferenza è già violenza.
Federica Levi

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