lettere al direttore
Dopo la separazione delle carriere, la sfida è quella dei suicidi in carcere
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - “Nei paesi nei quali gli uomini non si sentono al sicuro in carcere, non si sentono sicuri neppure in libertà” (Stanislaw Jerzy Lec, “Pensieri spettinati”, 1957).
Michele Magno
Al direttore - Intrattenendo i lettori di Repubblica sull’ultima infelice uscita del Santo Padre, e sottolineandone la compassione, l’umanità e la simpatia, Luigi Manconi scrive, fra l’altro: “Solo gli sciocchi possono stupirsi del fatto che Papa Francesco abbia definito l’aborto ‘un grave peccato’. E cos’altro mai dovrebbe dire un Papa?”. Dimentica, Manconi, che il Papa, ad esempio, ha anche affermato, in più occasioni, che abortire è come “affittare un sicario per eliminare un problema”. Siamo ben oltre il “grave peccato”. E’ davvero ammirevole, senza ironia, il tentativo della sinistra intellettuale di giustificare, in qualche modo, gli “infortuni” del Santo Padre. Di fronte a certe prese di posizione, però, e al lungo elenco di delusioni che lo stile di Papa Francesco va continuamente infliggendo ai suoi tenaci “difensori”, sarebbe forse il caso di alzare le mani e arrendersi all’evidenza. In fondo, potrebbero consolarsi sapendo di averci provato.
Luca Rocca
Pollice verso, sul nostro amico Manconi. Pollice alzato, invece, per Rita Bernardini, che da ventuno giorni è in sciopero della fame per invitare la maggioranza a mettere in campo soluzioni concrete e non solo retoriche contro il sovraffollamento carcerario. Suggerimento non richiesto a Carlo Nordio: prendere la proposta di legge incardinata in Parlamento da Bernardini con Roberto Giachetti e provare a separare oltre che le carriere tra pubblici ministeri e giudici anche quelle tra carceri e suicidi.
Al direttore - E’ vero, nella Chiesa c’è spazio per tutti. Come è vero che Dio ama tutti, così come siamo. Basta però capirsi su quel “come siamo”, perché detta così il rischio di equivoci e fraintendimenti anche gravi è dietro l’angolo. Se dunque il “come siamo” lo si intende nel senso che Dio, essendo stati gli uomini perdonati in virtù del sacrificio di Cristo che ha pagato Lui il conto per tutti, effettivamente ama ogni persona così come essa è, va bene. Ma se invece lo si intende nel senso che, siccome Dio mi ama come sono, posso restare nella mia realtà di peccato senza alcun bisogno di convertirmi, come se cioè peccare o non peccare fosse in fin dei conti la stessa cosa, be’ in questo caso la musica cambia. E parecchio, anche. Ed è una musica sbagliata perché sarebbe come affermare che Dio, oltre al peccatore, amasse anche il peccato. Il che è evidentemente una bestemmia. Pensarla così equivale a intendere l’amore gratuito di Dio non già come uno sprone per, appunto, convertirsi e cambiare vita abbandonando il peccato, ma una specie di lasciapassare per continuare a vivere come ci pare e piace. Un approccio, questo, oltre che pastoralmente miope posto che non si ha, come dire, la percezione che né i seminari né le chiese si stiano di nuovo riempiendo essendo piuttosto entrambi sempre più vuoti, è anche teologicamente assai scivoloso, per usare un eufemismo, dal momento che postula la possibilità che grazia e peccato possano coesistere quando invece si escludono a vicenda come la luce e le tenebre (senza che questo, ovviamente, precluda il fatto che si possa essere santi e peccatori allo stesso tempo, come per altro la storia stessa della santità dimostra. Ma questo non sposta di una virgola quanto stiamo dicendo). E’ vero, Gesù usò misericordia con l’adultera che i farisei volevano lapidare; ma non risulta che le abbia detto “tranquilla, continua pure con la tua vita, tanto io ti perdonerò sempre”; le disse piuttosto, “va’ e non peccare più”. O anche nostro Signore era troppo rigido?
Luca Del Pozzo