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Lettere

Il merito, non le tessere di partito, salverà la sanità italiana

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa 


 

Al direttore - Ho molto apprezzato l’articolo di Maurizio Crippa sulla ricorrenza del D-Day. Non sono riuscito a capire, però, quale norma costituzionale autorizzasse gli Alleati a usare delle armi offensive che da noi vengono ripudiate. Certamente se si fossero avvalsi solo di armi difensive, non staremmo a raccontarci il successo del più grande sbarco della storia.
Giuliano Cazzola

Bandiera bianca la tri-on-fe-rà. 

 


 

Al direttore - Ho letto con attenzione l’intervista al prof. Remuzzi che avendo con ordine ri-centrato la questione mi premuro di cuorare. Mi consenta però di aggiungere due postille proprio in virtù di quella evoluzione delle conoscenze a cui il prof. fa riferimento. A tal proposito riprenderò i due numeri più interessanti cui fa riferimento Remuzzi e proverò a proporre due “facili” soluzioni. Primo: 80 per cento (le persone che accedono ai Pronto Soccorso e che potrebbero essere curate a casa). Per provare a far rientrare questo dato entro limiti accettabili a mio avviso la soluzione è “educazione”. Infatti, i servizi “alla portoghese” funzionano solo se si aiutano i medici nell’educazione delle famiglie alla gestione del paziente non più curabile. E’ noto infatti che una buona parte di quegli accessi “intasanti” è costituito da tali pazienti (evoluzione della conoscenza). Secondo: 50 miliardi (spesi per esami inutili all’anno). Per evitare che ciò si ripeta ogni anno bisogna, guarda un po’, “informare”. Magari raccontando che oltre il 95 per cento delle cause intentate contro gli operatori sanitari finiscono con un “nulla di fatto” (evoluzione della conoscenza). Che la politica si impegni in queste due soluzioni. Più sostegno ai medici e meno “occupazioni” degli ospedali pubblici. Un saluto.
Luigi Carbone

Dove si firma?

 


 

Al direttore - Proprio in questi giorni un mio paziente a domicilio mi diceva che l’unica esperienza di malattia che non vorrebbe più ripetere è quella del ricovero in Pronto Soccorso. Un altro, giunto a Torino da una regione meridionale, mi esprimeva la tristezza di aver dovuto lasciare i suoi campi oltre che per la patologia anche per la totale assenza di una valida assistenza medica e infermieristica a casa. Le loro parole mi sono tornate in mente questa mattina leggendo quanto il professor Remuzzi ha detto al direttore Cerasa rispetto ai recenti provvedimenti presi dal governo in materia di prestazioni sanitarie. Da medico clinico non posso che condividere le parole di Remuzzi: il problema non è solo la quantità di risorse economiche da destinare alla sanità nel tentativo di ridurre le liste di attesa e di garantire le prestazioni erogabili. E’ evidente che la carenza organizzativa e la scarsa sensibilità alla dimensione della malattia dimostrata da gran parte della politica giocano un ruolo centrale nel rendere spesso i nostri luoghi di cura quanto di più inospitale si possa immaginare, con rare eccezioni. Otto volte su dieci l’accesso in Pronto Soccorso potrebbe essere evitato, dice a ragione Remuzzi, e questo anche potenziando l’assistenza domiciliare. E’ esperienza comune dei pazienti la difficoltà a mettersi in contatto con un medico di base, di avere risposte per dubbi importanti riguardo la salute, la gestione dei farmaci, la scelta di esami diagnostici. Non è infrequente trovare pazienti a domicilio ai quali nulla è stato spiegato rispetto alle decisioni mediche prese in ospedale. Diretta conseguenza di questa difficoltà spesso insormontabile è la scelta di recarsi in Pronto Soccorso, un luogo dove presto o tardi ci si attende almeno una risposta parziale data magari sottraendo tempo e risorse a quei casi per i quali una risposta medica o chirurgica può fare la differenza tra la vita o la morte. Altra falsa via di uscita è quella di considerare il farmacista una persona in grado di esercitare la competenza di un medico rispetto alle strategie terapeutiche da intraprendere, cosa della quale ci si può rendere conto restando semplicemente in ascolto in farmacia mentre si è in coda. Cinquanta miliardi all’anno di prestazioni sanitarie inutili, sottolinea Remuzzi, spesso l’esito di una medicina lontana che cerca di colmare la distanza prescrivendo esami o farmaci che magari visitando il paziente si sarebbero evitati. A fronte dell’impegno spesso quasi eroico che molti medici e infermieri ogni giorno mettono in campo, la sensazione è che manchi quell’efficienza di base e quella vera meritocrazia che permetterebbero, mettendo le persone migliori nei posti più rilevanti, di organizzare al meglio i nostri servizi, specie quelli di prima emergenza, senza spingere verso una dimensione di volontarismo che finirà per pesare sui più disposti al sacrificio. E accorgersi, come nota ancora una volta Remuzzi, che direttori sanitari e primari dovrebbero essere scelti sulla base delle loro esperienze e competenze, non su quella di una particolare appartenenza politica o settaria, dovrebbe essere quanto di più naturale per chi esercita il potere. Tutti, prima o poi, passeremo dall’altra parte, quella dei malati; tutti, per un motivo o per l’altro, avremo a che fare con problemi sanitari. Il fatto di sentirsi direttamente interessati dovrebbe spingere quelli che possono prendere decisioni politiche rilevanti a rendere il nostro Sistema sanitario nazionale veramente universale, solidale, uniforme e i nostri luoghi di cura un fiore all’occhiello, luoghi da ricordare per l’aiuto che ci danno e non per la paura che ci incutono.
Ferdinando Cancelli

Considerazioni ulteriori di Remuzzi, rimaste fuori sacco: “Ai tempi dei consigli di amministrazione, anni Ottanta, primi anni Novanta, i primari erano uno democristiano, uno comunista, uno socialista e uno bravo (è una storiella, ma piena di verità). Riuscirà chi oggi governa la sanità dove hanno fallito Prima e Seconda Repubblica? Chissà”. E poi. Per competere con i migliori ospedali d’Europa, ha scritto nel suo libro “Le sanguisughe di Giulietta”, “i direttori dovrebbero poter attirare medici bravi, a cominciare dai primari. Cosa deve avere di speciale un direttore per poter fare bene tutte queste cose? Una buona testa, aver fatto buone scuole, studiare. E poi avere un buon rapporto con il direttore sanitario e con i capi dipartimento. Essere vicini a questo o a quel partito può essere d’aiuto? Tutt’altro, è un handicap. Quelle scelte lì si fanno davvero solo se si è liberi”. L’efficienza, in fondo, nasce anche da qui".

 


 

Al direttore - Nel pieno rispetto delle vostre fonti e delle vostre opinioni, ci permettiamo di osservare come l’articolo di Giulia Pompili da voi pubblicato nell’edizione di ieri del Foglio rischi di alimentare un pericoloso avvelenamento del nostro dibattito pubblico. Ancora una volta le nostre opinioni contro il coinvolgimento dell’Italia nella guerra in Ucraina vengono confutate non nel merito, ma solo in base a una dietrologia secondo cui queste opinioni sarebbero unicamente funzionali alla disinformazione operata da Mosca per influenzare le nostre elezioni europee. Il fatto che la fonte di queste critiche sia il Center for Defense Reforms di Kyiv che si permette di mettere all’indice alcune iniziative di carattere politico e culturale italiane, aggrava la situazione, perché questa censura  estera nel nostro dibattito politico dovrebbe semmai essere rimandata al mittente come un’intollerabile ingerenza. Sempre nell’articolo, questa volta direttamente dall’autrice, il professore Michele Geraci viene definito come “attivista pro Cina”, dimenticando che  questo professore (responsabile della politica estera del Movimento Indipendenza) insegna a Shanghai ma per conto della New York University. In questo caso la colpa potrebbe essere quella di essere stato uno dei promotori degli accordi italiani sulla Via della seta quando era sottosegretario del governo Conte I. Insomma non veniamo criticati nel merito di quello che diciamo o di quello che facciamo, ma solo perché osiamo essere controcorrente rispetto al pensiero  dominante che vede la Russia e la Cina come dei nemici assoluti. Noi, nella modestia dei nostri mezzi, pensiamo che l’Italia dovrebbe cercare di ricostruire buoni rapporti con tutti, sia con gli Stati Uniti sia con le potenze che fanno parte dei Brics. In particolare pensiamo che la prosecuzione a oltranza della guerra in Ucraina come la revoca della partecipazione italiana alla Via della seta siano scelte contrarie al nostro unico interesse: quello nazionale italiano. Attendiamo di essere smentiti nei fatti, non semplicemente demonizzati perché abbiamo idee diverse. Grazie dell’attenzione.
Gianni Alemanno, segretario nazionale Movimento Indipendenza

Risponde Giulia Pompili. "Gentile Alemanno, le faccio presente che le posizioni del comitato “Fermare la guerra” coincidono con quelle del Movimento Indipendenza che a loro volta coincidono con quelle di Mosca e di Pechino. Tre coincidenze fanno un fatto, riportato nell’articolo, con il contributo del quale l’opinione pubblica si forma un’idea. In merito all’uscita dal memorandum sulla Via della seta, abbiamo riportato più volte le parole di esponenti di governo rispetto alle quali la decisione è stata presa “per interesse nazionale” perché non avrebbe dato “i risultati sperati”. L’attivismo pro Cina del responsabile della politica estera del Movimento Indipendenza è un altro fatto, non una “colpa”, di cui credo, il professore, vada anche fiero. Saluti".

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