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Lettere

Il problema dei ballottaggi, in Italia, è che ce ne sono troppo pochi

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - La lettera pubblicata ieri del presidente Coop, Mario Cifiello, rivela la sua mancanza di coraggio nell’ammettere che in tutti i supermercati Coop non esiste più un prodotto con la scritta Israele. Primo fra altri le famose arachidi, vendute in una confezione che ricordava quanto erano buone e famose perché israeliane. Coop non è la prima a eliminare fra i suoi prodotti le arachidi con quella pubblicità, lo stesso repulisti lo fece alcuni mesi fa proprio con le arachidi il supermercato Lidl, minacciato se non le avesse eliminate dagli scaffali. Tutti ubbidienti, dato che simili aggressioni erano già avvenute in altri supermercati. Cifiello, per dimostrare la sua innocenza, cita infatti altri prodotti che provengono dalla “Palestina”, i “Datteri da Gerico”, richiamandosi alla libertà di scelta e, cosa che aiuta sempre, quanto sia necessaria la “pace”. Caro direttore, purtroppo marchiare i prodotti dell’unica democrazia del medio oriente non è più possibile anche nella democratica Italia, un divieto che vale ormai per università e ogni ordine di scuole, film, media e TV. Ci rimane un “viva Israele!”, come hai fatto tu. 
Angelo Pezzana
 

Spero, caro Pezzana, che l’esempio che lei porta sia legato a un singolo episodio e non sia invece una scelta politica dei supermercati Coop. Anche perché per capire chi trae beneficio dai boicottaggi è sufficiente leggere una dichiarazione fatta due giorni fa da un portavoce di Hamas, che ha rivendicato, grazie al boicottaggio, che è parte di una “resistenza globale contro il nemico sionista”, “risultati significativi nel indebolire l’economia dell’entità, isolandola e delegittimandola”. E che ha chiesto “ai popoli delle nostre nazioni arabe e islamiche e alle persone libere del mondo di sostenere tutti gli sforzi che portano al boicottaggio e all’isolamento dell’entità e dei suoi sostenitori”. Utili idioti no grazie.
 



Al direttore - Tornare alle urne per una seconda volta nel giro di un paio di settimane non è precisamente il desiderio più cocente degli elettori italiani che continuano a dichiarare a lettere cubitali la loro disaffezione al rito del ballottaggio. I dati della partecipazione, al 47,7 per cento, raccontano di un calo rispetto alla già non splendida ma almeno maggioritaria partecipazione del primo turno e consegnano ai vincitori una rappresentanza maggioritaria calcolata su meno della metà dei cittadini. Si tratta di una compressione che in Italia appare inevitabile nel “voto di ritorno”: se si pensa che alle suppletive parlamentari, che si celebrano per i collegi uninominali vacanti per qualche accidente nella legislatura, va a votare non più del 20/30 per cento degli aventi diritto, nell’indifferenza sovrana degli altri. Se si aggiunge, poi, che, salvo casi limitati e spesso riferiti solo a candidature in equilibrio nel primo turno, in genere il ballottaggio delle comunali conferma i dati del primo voto, cioè di quello più partecipato (e quando, in casi rari, rovescia il risultato lo fa con una diversa base per composizione e numerosità di partecipanti) allora forse qualche riflessione andrebbe pure fatta sulla tenuta di questa modalità di consacrazione dei sindaci e delle loro maggioranze. La legge che lo istituisce, la n.81 del 1993, è nata nel periodo dell’innamoramento della politica per le investiture dirette dei rappresentanti del popolo che porterà nello stesso anno al referendum e poi alla riforma elettorale maggioritaria basata su collegi uninominali e alla cancellazione del voto di preferenza. La motivazione, a ben vedere, non era troppo diversa da quella che viene agitata oggi dai sostenitori del premierato elettivo, che indicano proprio nell’elezione diretta del sindaco il loro modello: la scelta dei cittadini del loro primo cittadino d’Italia. Ma, impalcature istituzionali a parte, restiamo nella logica elettorale e domandiamoci a che serve il ballottaggio, oltre a consentire accordi di potere più o meno manifesti tra le liste “ti voto ma tu mi dai un assessore”. La cosa non è molto chiara al corpo elettorale. E’ vero che negli ultimi trent’anni i sindaci sono apparsi più stabili che nel passato, ma questo è avvenuto anche al prezzo di una retrocessione del peso politico delle assemblee municipali, senza particolare beneficio per la manutenzione delle città italiane. Se la politica italiana è già brutta di suo, i livelli di prossimità non sembra che si adornino di particolari bellezze. Andrebbe spesa, allora, qualche riflessione, a trentun’anni dall’entrata in vigore della riforma degli ordinamenti comunali, sull’effettiva agibilità delle assemblee municipali dal punto di vista della rappresentanza e sul ruolo spesso soverchiante del sindaco. Per l’intanto, però, lasciateci porre la domanda: di grazia, perché i ballottaggi?
Pino Pisicchio
 

Domanda legittima. Risposta doverosa. Il problema dei ballottaggi, in Italia, non è che ce ne sono troppi, è che ce ne sono pochi. E’ un sistema spietato, è vero, ma è un sistema che permette di capire con chiarezza chi non si vuol far vincere. Spiace per gli astenuti, ma il ballottaggio andrebbe moltiplicato, non limitato.

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