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lettere al direttore

I signor nessuno delle carceri non valgono meno di un Chico Forti

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Nel 1816 Giulio, il figlio di Cesare Beccaria, allestì un’intera sala del palazzo milanese di via Brera per custodire i manoscritti del padre: un piccolo santuario domestico eretto in sua memoria. Quali sovrapporte agli ingressi della sala, commissionò a un ignoto pittore quattro tele a tempera. Due illustrano l’evento più memorabile della sua vita: la stesura delle diverse bozze dell’opera che gli aveva dato una fama internazionale. La prima raffigura il momento che precede la scrittura: quello dell’ispirazione civile. La giustizia, velata e in ceppi, con aria affranta, è presentata da un Genio alato a Cesare. Questi, seduto sullo scrittoio, ruota le spalle per volgere lo sguardo verso di loro. Lo spettatore intuisce che sta alzando la voce per restituire dignità alla giustizia. Nell’immagine della seconda tela lo si vede invece intento a scrivere il suo capolavoro. A dettarglielo è Minerva, cioè il lume della ragione. Nella grazia neoclassica della prima tela colpisce il volto mesto e chino della Giustizia. Ha le mani legate: è impotente, asservita. La sua condizione sembra quasi alludere al trionfo dell’ingiustizia. Colpiscono anche gli oggetti che stanno ai piedi della sua figura dimessa: un ceppo, su cui il boia esegue la decapitazione; e una spada, iconico attributo della Giustizia insieme alla benda e alla bilancia. Quale significato ha la presenza di questi oggetti? L’idea del pittore o, più probabilmente del committente, è che la Giustizia è afflitta e impotente perché le viene affidato il cruento ufficio di tagliare la testa ai condannati. La spada non compare nella tela come un attributo della Giustizia, bensì come la sua negazione. La Giustizia – l’autentica giustizia – si affaccia con i tratti della mitezza: è una figura disarmata. Il che tuttavia non risolve il suo rapporto con la violenza. Contrapponendosi all’eulogia della “potestas gladii”, Beccaria avverte pienamente il carattere inesorabile e tragico di quel rapporto: interprete di una nuova sensibilità umanistica, approda a una sua sofferta consapevolezza. Nella rappresentazione tradizionale, la spada era il fulgido emblema della giustizia che punisce la malvagità. E’ contro questa ideologia mistificante che insorge Beccaria. Beninteso, la violenza penale serve a combattere quella di chi delinque: ma sempre violenza resta. Ecco perché la figura della Giustizia è drammatica: non potendo rinunciare alla violenza, deve costantemente sforzarsi di farne l’uso minimo necessario. In fondo, è proprio questo concetto di “minimo necessario”, insieme cifra stilistica e nucleo filosofico in “Dei delitti e delle pene”, uno dei lasciti più preziosi di Beccaria per affermare una cultura garantista del diritto penale. Purtroppo, non paiono ancora sussistere le condizioni politiche affinché il nostro governo e la sua maggioranza parlamentare compiano un risoluto passo in avanti su questa strada. Non resta che sperare in congiunzioni astrali più benigne.
Michele Magno


Bisognerebbe dedicare un po’ meno tempo alle condizioni delle carceri straniere e dedicare più tempo alle condizioni delle carceri italiane. Bisognerebbe dedicare un po’ meno tempo ad accogliere i Chico Forti all’aeroporto e dedicare un po’ più di tempo a compiere atti drastici (drastici, non carezze) per intervenire sulle condizioni disumane delle carceri italiane (siamo a 52 suicidi, nel 2024). Dati utili che sarebbero da ricordare ogni giorno. Sovraffollamento nelle carceri italiane: 130 per cento, con  61.480 detenuti a fronte di 47 mila posti effettivi. Tasso di sovraffollamento carceri ungheresi: 111,5 per cento. Numero detenuti nelle carceri ancora in attesa di giudizio definitivo: 15.415. Ricordarlo ogni giorno: anche se non aiutano ad avere i titoli dei tiggì, i signor nessuno delle carceri non valgono meno di un Chico Forti. Grazie.
 

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