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Lettere

Sicuri che il cattivismo modello Trump basterà a sconfiggere Kamala?

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa 

Al direttore - Urge evitare di lasciare  campo libero alle battaglie antiscientifiche e illiberali di Coldiretti. Oltretutto Parma da sempre rappresenta la prova vivente che tradizione e innovazione, che industria e agricoltura non solo possono convivere ma che insieme prosperano. Una contromanifestazione dunque, una giornata di studi, la formula trovatela voi ma non si lasci senza risposta questa provocazione.

Filippo Ziveri


  

Al direttore - Bisognerebbe ricordare a Trump e a Vance che se i veri americani (i nativi) avessero respinto tutti gli immigrati, il presidente degli Stati Uniti oggi forse si chiamerebbe Lakota Tatanka Yotanka (Toro Seduto).

Michele Magno

A proposito di cattivismo, per così dire. Il New York Times ha ricordato tutto quello che Trump, negli ultimi tempi, ha detto su Kamala Harris. L’ha descritta come “cattiva”, “pazza” e “irrispettosa”, ha preso in giro la sua risata, ha pronunciato male il suo nome e ha promosso una falsa affermazione secondo cui Kamala Harris non è costituzionalmente idonea a ricoprire la carica di vicepresidente, riecheggiando la sua campagna razzista “birther” contro Barack Obama. Lauren Leader, fondatrice di All In Together, ha detto sempre al Nyt che la presenza della Harris potrebbe far venir fuori ancora di più tutto il peggio del trumpismo e non è difficile immaginare che Trump possa, non in modo strategico ma in modo automatico, esagerare contro la Harris. Nel 2016, gli attacchi personali a Hillary Clinton non sono costati a Trump la vittoria nella corsa presidenziale. Ma se al cattivismo contro Kamala dovesse aggiungersi il cattivismo modello Vance (che anni fa accusò violentemente Kamala di essere una “gattara, senza figli, infelice della propria vita”, e che in quanto tale non aveva alcun interesse e amore per il futuro dell’America) siamo sicuri che la campagna di Trump ne potrebbe trarre giovamento? Chissà.


 

Al direttore - Scrivo la presente, di cui chiedo gentile pubblicazione, in risposta all’articolo pubblicato lo scorso 20 luglio “Il genocidio infinito dell’Armenia, dove ad essere rimosse ora sono le croci”, a firma di Antonia Arslan. La signora Arslan nell’articolo offre una versione distorta, storicamente infondata e parziale  della situazione tra Azerbaigian e Armenia. Definisce “Artsakh” una regione, internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaigian – ricordo a tal proposito  ben quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che chiedevano anche il ritiro delle forze armate di occupazione dell’Armenia, che nessuno al mondo, inclusa la stessa Armenia, ha mai riconosciuto come tale. Non paga di ciò, lo descrive come un “luogo fiabesco”. Ci chiediamo con stupore quali territori abbia visitato la signora Arslan, se ancora oggi i rifugiati e profughi azerbaigiani sono riusciti solo parzialmente a tornare alle proprie case, a causa della massiccia presenza di mine che rende il Karabakh una delle aree più minate al mondo. Proprio mentre veniva pubblicato l’articolo, un ennesimo civile azerbaigiano veniva ferito da una mina nel distretto di Kalbajar. Nel momento della liberazione dei nostri territori, dopo quasi 30 anni di occupazione, abbiamo trovato solo devastazione e rovine. L’intero patrimonio culturale e religioso azerbaigiano è stato annientato. Le nostre moschee ridotte in stalle. A differenza dell’Armenia, paese monoetnico, l’Azerbaigian è noto per la cura e l’attenzione che dedica a tutte le culture e le religioni presenti nel paese. Stiamo restaurando le antiche chiese albane presenti in Karabakh. Nel centro di Baku, c’è una chiesa armena restaurata a spese del mio governo e contenente un cospicuo numero di volumi antichi, anch’essi conservati con cura. E’ inoltre importante sottolineare che la problematica tra Armenia e Azerbaigian è stata sempre di natura territoriale e non legata a questioni religiose, diversamente da quanto lasci intendere l’autrice. Ma l’aspetto forse più significativo, è che questo articolo tace sul fatto che la situazione nella regione oggi è diametralmente diversa. La guerra è ormai alle spalle. Azerbaigian e Armenia stanno facendo grandi sforzi per la normalizzazione delle relazioni e siamo fiduciosi che presto potrà essere firmato un trattato di pace. Gli armeni che hanno lasciato il Karabakh nel settembre 2023 lo hanno fatto volontariamente, non c’è stato nessun osservatore internazionale che abbia testimoniato violenze o pressioni, e siamo pronti in ogni momento a riaccogliere chi ha abbandonato la regione, per avviare una convivenza pacifica, nel segno del benessere per i nostri popoli. Ci spiace che non si sia in grado di vedere la nuova realtà e di accettare gli sforzi compiuti dall’Azerbaigian per raggiungere una pace sostenibile tanto attesa, con benefici per tutti i popoli della regione.

Vugar Hajiyev, consigliere dell’ambasciata dell’Azerbaigian
 

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