Lettere
Disuniti alla meta: l'improbabile strategia elettorale di Franceschini
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Un giornale che apre la prima pagina con l’articolo di Pupi Avati (bellissimo è riduttivo…) non ha paragoni. Ripagato dell’abbonamento… e sempre più convinto che il Foglio sia stra-ordinario. Grazie. Saluti cari.
Peppino Di Tano
Come i suoi lettori. Grazie.
Al direttore - Come spesso avviene, l’intervento di Dario Franceschini ha iniettato nel dibattito su orientamenti e assetti del centrosinistra una salutare dose di realismo. Partiamo dalla legge elettorale che c’è e che non è probabile che cambi, dice in sostanza l’ex ministro, e cerchiamo stavolta di usarla bene, come ha saputo fare la destra nel 2022. Per vincere non serve fare una coalizione che sia d’accordo su tutto. Basta un cartello elettorale per andare uniti nei collegi uninominali. E un patto tra gli alleati che assegni al partito che arriva primo l’indicazione del presidente del Consiglio. Su tutto il resto ci si confronterà e si troverà il punto di mediazione. Non sarà l’ideale, ma è l’unica strada che c’è: tutto il resto è noia, autolesionistica. Con questi semplici accorgimenti, del resto, Meloni è arrivata a Palazzo Chigi. Il centrosinistra nel frattempo, dopo aver governato unito (e bene) per quasi tutta la legislatura, si divideva in tre pezzi per ragioni ancora oggi incomprensibili: col risultato di pareggiare sul proporzionale, ma di arrendersi senza combattere nei collegi uninominali, regalando al destracentro una vittoria a tavolino e una larga maggioranza in Parlamento. E’ assai probabile che Franceschini abbia ragione: un accordo “light” è il massimo che si possa sperare di raggiungere, se si vuole almeno provare a mettere in campo una coalizione larga, che tenga dentro dai centristi ai Cinque stelle. E tuttavia, una strategia siffatta rende ancora più e non meno decisivo il nodo dell’orientamento politico e programmatico del Pd. Perché, se è vero che nel proporzionale ogni partito farà la sua campagna elettorale, nei collegi uninominali il confronto assumerà comunque una configurazione maggioritaria. E proprio perché, sul piano formale, non ci saranno candidati di coalizione alla guida del governo, questo ruolo non potranno che svolgerlo i/le leader dei due partiti maggiori. Tanto più se si considera che una delle due leader è, e probabilmente ancora sarà, quando si andrà al voto, la premier in carica. La domanda cruciale da porsi resta dunque quella emersa, nei giorni scorsi, dalle due iniziative parallele di Milano e Orvieto. Che non hanno messo in discussione né l’unità del centrosinistra, né il coinvolgimento del M5s, né il Pd e neppure la leadership di Elly Schlein: conquistata sul campo, grazie all’istituto delle primarie, che la proietta anche nel ruolo di candidata del Pd alla guida del governo del paese, e confermata dal positivo trend elettorale del partito. Ma si sono invece chieste, le due iniziative, se l’attuale orientamento politico-programmatico del partito sia adeguato a rendere competitivo il centrosinistra nel confronto con il destracentro che governa il paese. Su questo punto, la risposta è stata negativa: l’attuale posizionamento del Pd non è in grado di far vincere il centrosinistra. Un posizionamento, quello attuale del Pd, che il direttore Cerasa, con efficace ironia, ha definito “un complotto”: per “far apparire la destra italiana più moderata rispetto a quella che è” e “fare di tutto per far diventare di destra anche elettori che di destra non sono”. La strategia referendaria è stata la punta di lancia che, nelle intenzioni dell’attuale gruppo dirigente del Pd, avrebbe dovuto sfondare le linee avversarie e aprire la strada alla vittoria del centrosinistra. Sta succedendo il contrario: ciò che resta dei referendum rischia di disarticolare il centrosinistra e di compattare il destracentro. Anche e soprattutto perché quella strategia si fonda su un intento revisionista, che non è quello, sanamente fisiologico, di dialettizzare il proprio passato in nome del futuro, ma è piuttosto quello, che Marx avrebbe definito reazionario, di opporsi al presente, o al passato prossimo, in nome del passato remoto. Come opporsi al capitalismo in nome del feudalesimo, anziché del socialismo. E così, non ci si propone di andare oltre il Jobs Act, ma di tornare indietro, all’articolo 18 del 1970, peraltro finendo, con involontaria comicità, in quello meno favorevole per i lavoratori, della legge Fornero. E sull’autonomia differenziata, come ha rilevato la Corte costituzionale, non si voleva correggere la legge Calderoli, ma restaurare il vecchio Titolo V. Sul premierato, si afferma disinvoltamente che la Tesi 1 dell’Ulivo e la bozza Salvi siano da buttare. La sintesi è un’autocritica revisionistica radicale: da Clinton e Blair fino a Biden e da Prodi fino a Draghi, i democratici, i riformisti, sono stati subalterni del neoliberismo. Quindi, il futuro della sinistra non è superare il passato prossimo in nome del futuro, ma tornare al passato remoto. Reazionari, appunto. E’ in grado Elly Schlein di portare la nave del Pd fuori da queste secche? Non è una domanda retorica, perché la leader dei democratici italiani ha nella sua cassetta degli attrezzi ciò che potrebbe servire alla bisogna: la giovane età, un approccio post ideologico, una postura innovatrice. E ha alle sue spalle un popolo formato in gran parte di ceti medi urbani, che pensano alla politica in modo moderno, dinamico, liberale. Non a caso il Pd è il partito delle città e delle città del nord in particolare. E’ il suo limite, ma è anche la sua forza. Ed è questo Pd che ha scelto Schlein. Saprà la segretaria promuovere una riflessione ampia e partecipata e sventare il “complotto”, riconvertendo la nostalgia del passato in voglia di futuro?
Giorgio Tonini
Riflessione ricca di spunti condivisibili, gentile Tonini, soprattutto quando dice che il punto, del Pd, non è il leader ma è la leadership, è la capacità di rendere competitivo il centrosinistra, senza regalare ogni battaglia riformista alla destra, senza giocare sempre di rimessa, uscendo fuori dalla comfort zone dell’antifascismo sterile interessato solo alle braccia tese ma non ai fascisti del presente. Sfida complicata, forse impossibile, ma all’interno di questa sfida l’algebra ha un suo peso e il ragionamento di Dario Franceschini, nella sua bella intervista di ieri a Repubblica, presenta due difetti. Il primo di metodo: se vuoi provare a essere competitivo con il centrodestra, replicando il suo schema, non puoi prendere in giro gli elettori dicendo facciamo una coalizione solo opportunistica, ma noi ci odiamo, non ci sopportiamo, ci detestiamo, dunque non considerateci una coalizione. Il secondo problema è di forma: quello che dice Franceschini, non allearsi nel listino proporzionale e costruire una desistenza nel sistema maggioritario, semplicemente non si può fare. Nel Rosatellum, il candidato che si presenta all’uninominale è collegato al proporzionale: se voti il Pd o il M5s o Avs, il voto poi va automaticamente al candidato che si presenta nell’uninominale. Viceversa, se voti solo il candidato che si presenta all’uninominale, il tuo voto poi se non indichi una preferenza del partito viene redistribuito tra i partiti che fanno parte della coalizione. La linea Franceschini non è solo sbagliata, è anche impossibile da realizzare.