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lettere al direttore

Le elezioni si vincono solo se in coalizione, ma va detto agli elettori

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Non credo che l’Ops del Montepaschi deturpi l’identità di Mediobanca. Anzi. Mediobanca fu voluta dal grande banchiere Raffaele Mattioli, dominus della Banca commerciale italiana, come un istituto “della Comit e per la Comit”. La fortuna di Mediobanca fu dovuta all’alta professionalità del suo demiurgo, Enrico Cuccia, e del personale. Ma senza una leggina in apparenza di poco “peso”, che purtroppo nessuno ricorda, il successo non sarebbe stato possibile: con una norma del 1946, si dava la possibilità all’istituto, nato come operante nel medio e lungo termine, di agire anche nel breve termine, alla stregua di una comune banca ordinaria. Era una formidabile deroga a un cardine della legge bancaria del 1936. Qui sorge il carattere unico, tricefalo, il famoso ircocervo: banca d’investimento, holding di partecipazioni, istituto di credito speciale, donde l’esclusività nel sistema italiano fino alla riforma della legge bancaria e all’entrata in vigore del Testo unico bancario del 1993 con l’introduzione della banca universale e l’estesa possibilità di competere con Mediobanca, non più la sola, ma potenzialmente una fra tante. Mediobanca, prima con Cuccia e poi con i successori, ha battuto altre strade per fronteggiare il “monopolio” perduto, da ultimo anche quella del credito al consumo, in effetti ben governato. A questo punto, come si può sostenere che, se accanto al “corporate” e alla funzione di investimento nonché al wealth management si unisce un’azienda di credito ordinario, di fatto si danneggia la creazione di valore e si causa una serie di altre conseguenze negative, quando tutto ciò non è accaduto a partire dal 1946, fatti i dovuti cambiamenti? Sembrerebbe, invece, quasi un ritorno alle origini, anche se senza “scudi” e senza il ruolo protettivo delle Bin, le Banche di interesse nazionali che, “proprietarie” di Mediobanca, erano da questa considerate come partecipate, capovolgendo il rapporto con la forza di Cuccia. Non è fondato negare le evidenti complementarità: l’operazione Montepaschi – è innegabile – è di mercato. Allo stato, se agisce nel pieno rispetto delle regole vigenti per il “pubblico” e il “privato”, dunque in una condizione di assoluta parità con quest’ultimo, non si può contestare un atteggiamento anticoncorrenziale, come del resto sembra confermato da dichiarazioni che vengono da Bruxelles. Con il progetto in questione si rinsalda un comparto e si risponde anche all’interesse generale. Ovviamente Mediobanca, se lo ritiene, ha tutto il diritto di difendersi. E’, però, questo il caso di “surtout pas trop de zèle”. Del resto, non è stata Mediobanca la sede della glorificazione del cucciano “titolo quinto, chi ha i soldi ha vinto”? E, allora, perché una tale operazione dovrebbe essere demonizzata? Si competa, dunque, accogliendo la sfida. 
Angelo De Mattia

“Un’invasione di campo della politica? Non direi. Finché il governo si affida a meccanismi di mercato mi pare che la presidente del Consiglio tenga fede a quel che aveva dichiarato nel suo discorso programmatico, ossia che il motto di questo governo sarà: non disturbare chi vuole fare. E lasciar fare il mercato significa anche esporsi al rischio di un no” (Sabino Cassese, Repubblica, 25 gennaio 2025).   

   


 

Al direttore - Ipotizzando la permanenza dell’attuale legge elettorale e dell’unità elettorale del centrodestra, i numeri dicono che gli attuali partiti di opposizione hanno chance di vincere le prossime elezioni solo se correranno tutti uniti nei 221 collegi uninominali di Camera e Senato. Ciò premesso, come realizzare la necessaria unità piena del centrosinistra? Secondo alcuni è inevitabile una coalizione a vincolo rigido, modello “Unione 2006”, dove prima del voto si concorda praticamente tutto, in primis il candidato premier comune. Secondo un altro approccio, più aderente alla effettiva realtà politica, si può arrivare alla piena unità solo costruendo una coalizione a vincolo più flessibile, in cui prima del voto si definiscono insieme tutte le candidature uninominali e alcuni grandi e fondamentali punti programmatici e valoriali aggreganti. In un contesto del genere, la coalizione non indica il candidato premier prima del voto. Qualora vinca, dopo le elezioni propone come candidato premier al presidente della Repubblica la/il leader del partito che al suo interno ha preso più voti (nel 2022 il centrodestra seguì esattamente questa linea). Il sistema elettorale vigente è compatibile con la strategia flessibile? Certamente, proprio perché con il Rosatellum al centro della scena c’è il voto di partito, non di coalizione: si tratta di un sistema elettorale con caratteristiche tali da indurre ogni forza politica a fare campagna elettorale chiedendo prima di tutto un voto di lista, e ogni elettore a votare limitandosi a barrare il simbolo del partito prescelto. Questo perché in base alla legge il voto di lista si estende in automatico al candidato uninominale che il partito in questione può sostenere da solo o in collegamento con altre forze politiche. Il Rosatellum può non piacere. E a me non piace. Ma finché c’è va tenuto presente che si addice a una strategia realistica di centrosinistra che punti a sconfiggere la destra, che sta governando questo paese con risultati economici e sociali molto negativi, tenendo insieme partiti che non rinunciano a valorizzare una scelta di coalizione, ma che allo stesso tempo hanno bisogno anche di investire sulla loro identità e sulle loro peculiarità.

Dario Parrini, deputato del Pd

Tutto giusto, a patto di non prendere in giro gli elettori dicendo che si va al voto senza una coalizione, che invece è obbligatoria, a tutto campo, se ci si presenta con un accordo nei collegi uninominali.

  


   

Al direttore - Ho letto con interesse il pezzo uscito ieri a firma di Paola Concia e di Alessio De Giorgi e ne condivido assolutamente l’impianto di fondo. L’ideologizzazione polarizzata delle battaglie per i diritti della comunità lgbtq+ ha prodotto più danni che benefici. Aggiungo che certe battaglie, condotte nel segno dell’intolleranza da parte di chi in teoria avrebbe dovuto rappresentare il massimo avamposto dell’accettazione e del rispetto, si sono trasformate in un boomerang. Oggi il movimento lgbtq+ rischia di veder applicare a se stesso la medesima cancel culture che con grande disinvoltura ha applicato a coloro che ha percepito come avversari e – più spesso e più tragicamente – anche a quegli amici e alleati (se non addirittura a esponenti della stessa comunità) non perfettamente allineati a un’ortodossia dogmatica imposta dall’alto. Eppure, ora il pericolo maggiore è un altro: il rischio di un riflusso. L’onda della restaurazione, che dal momento della trionfale elezione di Donald Trump pare inarrestabile, potrebbe travolgere non soltanto gli estremismi e gli eccessi ma anche quell’aspirazione alla piena uguaglianza che io credo resti un diritto fondamentale per le persone lgbtq+ come per ogni essere umano. Non parlo di una minoranza elitaria che impone la propria visione alle masse bisognose di una politica che metta al centro i bisogni primari. Mi riferisco semplicemente all’idea che il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere non debbano essere in nessun caso, e senza eccezione alcuna, un ostacolo al godimento dei diritti, delle opportunità e delle prerogative che l’articolo 3 della Costituzione offre a tutti i cittadini. La schwa non può essere il centro del dibattito politico, ma questo non deve farci dimenticare che semplicemente non è vero, come dice Trump, che i generi sono soltanto due. L’uso dei bagni non può essere una priorità della vita politica, ma che l’Italia sia l’unico paese dell’Europa occidentale nel quale l’accesso al matrimonio civile è bandito alle coppie lesbiche e gay resta pur sempre un’inaccettabile discriminazione di diritto positivo. Insomma, rifuggiamo dal furore ideologico e perseguiamo pragmaticamente un progetto riformista, ma senza mai perdere di vista il traguardo dell’uguaglianza sostanziale che deve restare l’orizzonte strategico a cui tendere. Non solo per la nostra comunità ma, in questa fase in cui le destre vanno all’assalto dei princìpi delle democrazie liberali, per chiunque senta di appartenere alle forze di progresso.

Ivan Scalfarotto, Italia viva