
Foto Ap, via LaPresse
lettere al direttore
Sperare che Trump diventi così tossico da far emergere un'alternativa
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - A quanto si dice i referendum promossi dalla Cgil si svolgeranno l’8 e il 9 giugno. Praticamente keep calm, e provare a capire in che modo gli sfascisti sulla scala mobile che segnò una sconfitta storica ed “esistenziale” del Pci, in quanto venne spazzato via quel diritto di veto che i comunisti esercitavano, dall’opposizione, in materia di lavoro. Personalmente mi auguro (e credo) che, ora, ci sarà una seconda volta.
Giuliano Cazzola
Al direttore - Sono assolutamente giuste le considerazioni contenute nel commento sul Foglio del 14 marzo a proposito della “Fuffa anti inflazione”. Resta il dubbio se, proprio perché si è trattato di un obbligo finito nel nulla, l’Italia meriti veramente una procedura di infrazione. Quanto alla Bce, fermo restando che non vi è ovviamente paragone possibile tra il bollino anti shrinkflation e la politica monetaria che ha avuto un ruolo insostituibile, bisogna pure rilevare che errori gravi sono stati commessi per un non breve periodo nell’impostazione di tale politica – continuandosi a considerare transitorio l’aumento dell’inflazione quando tale non era affatto – e che ora si persiste nel governare la moneta “riunione per riunione, in base ai dati”. Così passa in secondo piano l’azione di anticipo che è e deve rimanere propria della politica monetaria. Contribuiscono a ciò le incertezze, ma la linea che si traduce nell’inseguire i dati dopo avere abbandonato la “forward guidance” è stata adottata dalla Bce ben prima del delinearsi del contesto attuale con le sue indeterminatezze.
Angelo De Mattia
Al direttore - Complimenti a Ginevra Leganza per i suoi divertenti articoli sull’affaire Tesla. La giovane parlamentare di estrema sinistra che ne è stata al centro non si deve scusare di nulla (a eccezione delle sue posizioni sul conflitto ucraino e sul riarmo dell’Europa). Battute a parte, se fosse stata di cultura liberale, infatti, forse avrebbe apprezzato questa riflessione di un eminente filosofo della politica americano: “Se un imprenditore di successo può permettersi una vacanza più costosa della mia, la differenza di reddito non è un’offesa a un malinteso egualitarismo. Se invece può acquistare cure mediche a me inaccessibili, questo è ingiusto. Avere più soldi di un altro non è un crimine. Non si dovrebbe poter comprare un giudice, un senatore, o (auspicabilmente) armi ad alto potenziale offensivo, o cibi contaminati. E il mercato va certamente regolato. Ma non ho mai compreso la critica della sinistra al consumismo, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nel fare acquisti o nel desiderio di cose belle. Mio padre gestiva una gioielleria e mi raccontò storie di famiglie di operai siderurgici che venivano a comprare una collana o un braccialetto per le loro figlie sedicenni: erano acquirenti orgogliosi. Una conquista che in troppi a sinistra non apprezzano” (Michael Walzer, “Sfere di giustizia”, Laterza, 2008).
Michele Magno
Al direttore - Come ha scritto lo studioso americano Hal Brands (“The Renegade Order”, Foreign Affairs, 25 febbraio), Donald Trump non pensa per nulla in termini di “ordine internazionale”. E’ un nazionalista puro e duro che persegue il potere, il profitto e il vantaggio unilaterale. Ma capisce in maniera intuitiva ciò che molti internazionalisti liberali non colgono: l’ordine deriva dal potere e difficilmente può essere mantenuto senza di esso. Trump sente che l’ordine liberale è al tramonto e che il mondo dei tagliagole sta tornando. Nasce da questa percezione la formula “peace through strength”, ovvero il brutalismo applicato alla politica estera: cruda espressività, sovvertimento delle regole, effetti divisivi. Le alleanze non sono più sacre unioni, gli impegni internazionali non sono più obblighi vincolanti, il pacta sunt servanda è roba da anime belle alla Biden. E, di fronte all’aggressività euro-asiatica (Russia, Cina, Corea del nord, Iran e proxy vari), Trump ha deciso di alzare una barriera, sovvertendo il tradizionale approccio americano di protettore del mondo libero anche a rischio di avviare una nuova fase di isolazionismo. Viste le pessime condizioni geopolitiche mondiali – “a clash of civilisation lite” l’ha definita lo storico americano Michael Kimmage – un’America superpotenza con gli artigli potrebbe anche non rivelarsi la cosa peggiore. A patto che Trump entri in modalità costruens e riesca a canalizzare i suoi impulsi in maniera positiva mettendo sotto pressione gli avversari, ottenendo di più dagli alleati e rafforzando le resistenze contro l’assalto euro-asiatico, il tutto per sostenere un nuovo equilibrio dei poteri che tenga a bada le mire espansionistiche delle potenze avversarie. Se, invece, prevalgono i suoi istinti destruens, con le sue buone idee in perenne conflitto con quelle cattive e un’Amministrazione in guerra permanente con se stessa, allora c’è da aspettarsi il peggio: un’America più aggressiva, più unilaterale, più illiberale. Da quando Trump è tornato in pista abbiamo scoperto che i nazisti dell’Illinois esistono per davvero e che il sodale di Trump, Elon Musk, vede la popolazione come formiche oppure, come ama dire, “Npc” (Non player characters, così vengono chiamati in modo derogatorio i giocatori passivi nel mondo delle scommesse) e che divide il pianeta tra makers and takers. Per questo sta smantellando i servizi pubblici che si occupano delle persone ordinarie, perché sono una massa enorme di inutili takers. Ma la Pubblica amministrazione non è una startup, inutile spiegarglielo. Tornando a Trump, è innegabile che abbia impresso il maggior cambiamento nella politica estera Usa dai tempi della Guerra fredda ma cammina su di un esile crinale. Dipende da lui se salire in vetta oppure finire nell’abisso, se essere un salvatore o solo un becchino del sistema. Non manca molto per saperlo.
Filippo di Robilant
Una speranza c’è: che l’Amministrazione Trump diventi così tossica da trasformarsi rapidamente in una sorta di grande governo gialloverde globale, per così dire, una sorta di benchmark, come direbbero gli osservatori colti, da respingere come uno stigma, come ha già capito bene Marine Le Pen in Francia: il trumpismo, fuori dall’America, non crea emulazione, ma crea imbarazzo e panico (e un po’ di imbarazzo e panico, in verità, lo sta creando anche fra i trumpiani, vedi la lettera con cui ieri un alto dirigente di Tesla ha avvertito che la guerra commerciale di Trump potrebbe esporre la casa automobilistica elettrica a tariffe di ritorsione che colpirebbero anche altri produttori di automobili negli Stati Uniti). Niente paura, keep calm, e provare a capire in che modo gli sfascisti su Marte daranno un contributo decisivo per creare un’alternativa alla loro visione del mondo.