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Lettere al direttore
Ascoltare Mattarella per festeggiare nel modo migliore il 25 aprile
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Si accusa Papa Francesco di essere contro l’occidente, scrive Domenico Quirico sulla Stampa, ma dove sarebbe mai, si domanda, questo “presunto, luminoso occidente” da difendere? Non esiste più, si dice certo Quirico, e se anche esistesse, lascia intendere, perché mai difenderlo? La risposta sta in una sola parola, anzi, due, che al giornalista, stranamente, non sono venute in mente: libertà e benessere. Come da nessun’altra parte del mondo. A Quirico pare poco?
Luca Rocca
Al direttore - Caro Cerasa, lei ha ragione. I partigiani di oggi sono i patrioti ucraini: ci vuole così tanto per capirlo? Meglio ancora: la sinistra di oggi, perché ci mette così tanto per capirlo?
Marina Tarini
Il miglior modo di festeggiare il 25 aprile, oggi, è tatuarsi in mente alcune delle frasi più belle usate negli ultimi anni da Sergio Mattarella per parlare del significato contemporaneo del 25 aprile. “Dal nostro 25 aprile viene un appello alla pace. Alla pace, non ad arrendersi di fronte alla prepotenza”. “Un popolo in armi affermò il proprio diritto alla pace”. “La pace non significa sottomettersi alla prepotenza di chi aggredisce gli altri paesi con le armi, ma la pace del rispetto dei diritti umani, la pace del diritto di ogni popolo alla libertà e alla dignità”. Viva Mattarella, viva il 25 aprile, viva gli eredi dei vecchi partigiani della libertà.
Al direttore - Mettiamo il caso che alle manifestazioni dell’Anpi e “compagni di merende” si presentino gruppi di partecipanti con due striscioni. Uno con questa scritta: “Soldati figli di cani liberate gli ostaggi”. Nell’altro: “Hamas deve mettere fine al controllo della Striscia di Gaza e consegnarci le armi”. Sono convinto che sarebbero cacciati. Eppure sono parole di Abu Mazen che, fino a prova contraria, è il capo della Autorità palestinese.
Giuliano Cazzola
Free Gaza from Hamas.
Al direttore - Nei primi anni Settanta, le manifestazioni del 25 aprile e del 1° maggio erano due appuntamenti obbligatori per chi, come me, militava nel Pci. Ma si svolgevano con modalità molto diverse. Per il 25 aprile si chiedeva alle sezioni di dotarsi quasi esclusivamente di bandiere tricolori. Per il 1° maggio, invece, prevalevano ovviamente le bandiere rosse.
L’Anpi, promotrice della manifestazione del 25 aprile, era composta da tutte le forze che insieme avevano partecipato alla Resistenza e dato vita alla Repubblica: dai liberali ai comunisti, passando per socialdemocratici, repubblicani, socialisti, azionisti, democristiani. Gli oratori a loro volta ruotavano tra queste diverse componenti, in una quasi perfetta fotografia dell’alleanza che si era consolidata nel Cln.
La distinzione era chiara. Il 25 aprile celebrava la nascita della Repubblica antifascista. Il 2 giugno, data che ricorda l’esito del referendum tra monarchia e repubblica, non è mai stata percepita come una vera festa popolare. Il 1° maggio, invece, era impregnato di valori sociali e metteva al centro il lavoro e i lavoratori. Ma già in quegli anni cominciava a diffondersi – in particolare ad opera di alcune frazioni minoritarie dell’Anpi, soprattutto ex partigiani comunisti, e di movimenti extraparlamentari di ispirazione sedicente marxista-leninista – una narrazione della Resistenza come di un tradimento operato dal revisionismo del Pci ai danni della sinistra. La Resistenza, secondo questa visione, sarebbe stata una “rivoluzione tradita”, il cui naturale sbocco avrebbe dovuto essere non la Repubblica democratica e il pluralismo politico sanciti dalla Costituzione, ma l’instaurazione di uno stato socialista.
La presenza nei cortei del 25 aprile di forze non nettamente orientate a sinistra cominciò a essere percepita con sempre maggiore fastidio, e non furono rari i tentativi di cacciare con la forza democristiani e rappresentanti di forze centriste. Abbiamo così assistito, lentamente, a uno slittamento del significato dell’antifascismo: da valore fondante della Repubblica, condiviso da tutto l’arco costituzionale – composto dai partiti che rigettavano il fascismo – verso un fronte “antagonista” che dell’originaria configurazione non conserva ormai quasi nulla.
Il significato dell’antifascismo si è al tempo stesso ristretto ed esteso. Si è ristretto perché esclude tutte le forze che non si riconoscono in una postura radicale e antagonista – fino al vergognoso tentativo di cacciare dal corteo la Brigata ebraica. E si è esteso perché ha finito per inglobare istanze che con l’antifascismo storico italiano non c’entrano nulla: il pacifismo a oltranza, ad esempio, mentre il 25 aprile fu anche – e soprattutto – celebrazione di una lotta armata e partigiana per la libertà, come lo è oggi quella del popolo ucraino.
Più recentemente, si è assistito al tentativo di vari movimenti filopalestinesi, alcuni chiaramente contigui ad Hamas, di egemonizzare i contenuti della celebrazione. Il risultato è che la parola “antifascismo” ha finito per perdere il suo significato storico, fino a diventare irriconoscibile. Non è stata attualizzata in modo coerente, ma banalizzata in una marmellata ideologica priva di senso. E’ diventata parola divisiva, anziché unificante. Incluso il maldestro tentativo di usarla contro l’attuale presidente del Consiglio, che con il fascismo ha fatto i conti in maniera inequivocabile molti anni fa, a Fiuggi.
L’Anpi attuale è completamente irriconoscibile, permeata da uno spirito fazioso che non ricorda nemmeno lontanamente le sue origini e la sua storia.
Chicco Testa