La ricreazione è finita
Rizzoli, 295 pp., 18 euro
La ricreazione, nel mondo del lavoro, è finita. E’ stata la crisi economica a suonare la campanella, ma in molti ancora vagano tra i corridoi ignari del tempo che cambia. L’intento principale del volume di Roger Abravanel e Luca D’Agnese è proprio quello di richiamare l’attenzione degli studenti, delle famiglie, degli insegnanti, e dei giovani disoccupati ai mutamenti della moderna società postindustriale, in gran parte ancora ignorate, a causa di nostrane debolezze strutturali, informative, psicologiche. E lo fa attraverso una lucida rassegna dei falsi miti e dei pregiudizi che aleggiano attorno al dibattito sulle esigenze dell’attuale mondo del lavoro e sulle ragioni reali dell’elevato tasso di disoccupazione nel nostro paese: l’idea che le scuole e le università siano tutte uguali dal punto di vista qualitativo; la convinzione che “prima si studia e poi si lavora”, vale a dire che esista uno spartiacque ben definito tra percorso formativo e accesso al lavoro; che le agenzie interinali sfruttino i disoccupati; che emigrare sia un male, e che rappresenti solo un sintomo della mancanza di prospettive in Italia, e non anche, invece, un segnale del riconoscimento a livello mondiale del talento dei nostri “cervelli in fuga”; che la globalizzazione e lo sviluppo delle nuove tecnologie non abbiano fatto altro che rubare posti di lavoro; ma, soprattutto, che la disoccupazione italiana sia solo frutto della crisi economica. Il merito più grande del libro è, infatti, quello di partire da un dato di fatto ben preciso, per quanto scomodo, e cioè che “il problema centrale della disoccupazione giovanile, al di là dei facili moralismi e delle giustificazioni fataliste, è che i giovani italiani sono spesso impreparati”. E lo sono, peraltro, non perché privi delle conoscenze specialistiche richieste dal moderno mercato del lavoro, come afferma il dibattito mainstream, ma in quanto carenti di quelle soft skills che interessano di più alle aziende: l’etica del lavoro (intesa come flessibilità, senso di responsabilità, spirito critico), la capacità di comunicare, di risolvere i problemi, di lavorare in team.
E’ su queste basi, come testimoniato dalle numerose storie raccolte dagli autori del libro, che le aziende e le persone riescono oggi a individuare e a coltivare il proprio vantaggio competitivo. Sta alle scuole e alle università, di conseguenza, prendere atto di questi cambiamenti e adattarsi al nuovo corso del mondo. E qui, tuttavia, c’è da constatare un’altra imbarazzante verità, ossia che la qualità degli insegnanti e dei metodi della didattica italiani, nella maggioranza tanto degli istituti scolastici che di quelli universitari, non sono adeguati alla formazione del Ventunesimo secolo. Il mero insegnamento di nozioni, formule, fatti storici su cui si basa il curriculum scolastico non aiuta a una maturazione delle richieste soft skills, né quest’ultime appaiono in grado di poter essere sviluppate in una scuola fatta di assenteisti volontari e insegnanti suggeritori.
Di apprendistato durante le superiori (un successo in Germania) e di maggiore trasparenza sulla qualità degli istituti (con la pubblicazione, ad esempio, dei risultati ottenuti dagli studenti nei test Invalsi, come avviene normalmente nei college inglesi), poi, non se ne parla, in un’opinione pubblica monopolizzata da politici, sindacati, insegnanti e famiglie sempre pronti a insorgere in nome di astratte tutele dei diritti dei minori e dei loro dati personali. Stesso discorso per l’università italiana, zavorrata da percorsi formativi inutilmente lunghi, un’altissima percentuale di studenti fuori corso, una proliferazione di lauree senza reali prospettive lavorative e, anche qui, scarsissima attenzione per la coltivazione delle soft skills. Ogni ipotesi di rilancio dell’occupazione giovanile, più che mai in tempi di riforma scolastica, non può che partire dal riconoscimento obiettivo di tali evidenti limiti del sistema formativo italiano.