Rimini
Bompiani, 364 pp., 14 euro
Un giornalista giovane e già sufficientemente preda della propria ambizione professionale, spedito a fare il viaggio e il lavoro che l’autore non fece mai; una cronista di provincia bella come uno schianto e regina del suo piccolo mondo e dei suoi molti segreti; un politico tormentato da Dio e dai rimorsi, quasi quanto lo scrittore omosessuale è tormentato dai ricordi e dall’assenza dell’amore vero; una ragazzina tedesca in fuga e una sorella in cerca: di lei, ma più che altro di sé; un sassofonista che attraversa le notti umide di noia degli altri; aspiranti registi squattrinati e scombinati; artistucoli mantenuti; un portiere d’albergo dal cuore nero come le sue notti. E tutto il contorno di turisti diurni e animali notturni che si alternano come nei turni di fabbrica. Sullo sfondo, il mescolarsi di trasgressione soldi sesso baraccone che fanno l’affresco disperante e sovraccarico di quello che, già allora, i giornalisti che non scrivevano altrettanto bene chiamavano “divertimentificio”. “Voglio che Rimini sia come Hollywood, come Nashville cioè un luogo del mio immaginario dove i sogni si buttano a mare”, diceva lo scrittore del suo nuovo romanzo, ancora in cantiere. “C’era dunque qualcosa di intimamente artificiale in ciò che aveva intorno, totalmente predisposto quasi come quel caldo opprimente e animalesco che fiutava nell’aria immobile della stazione”. Attribuita agli occhi di un personaggio appena sceso dal treno, la prima (ma definitiva) impressione di Rimini alla metà degli anni 80 è ovviamente tutta dell’autore. E per sua stessa ammissione, non bastasse l’evidenza della scrittura appena terminata, nella nota fuori testo in fondo al libro: “Nella primavera del 1981, il direttore di un quotidiano (…) mi propose di trascorrere due mesi sulla Riviera adriatica per lavorare a un inserto speciale. Non partii mai. E’ per questa semplice ragione che fatti, avvenimenti, personaggi di questo romanzo – pur nel rispetto della realtà e delle fonti d’archivio – sono del tutto immaginari e frutto solamente di una fantasia imbrigliata nei canoni settecenteschi della ‘verisimiglianza’”. Era il 1985 quando Pier Vittorio Tondelli pubblicò quello che nei suoi progetti avrebbe dovuto essere (e tutti nel mondo editoriale si aspettavano fosse) il romanzo della consacrazione, anche commerciale. Un romanzo-romanzo, in cui l’autobiografia tenuta per una volta a bada occhieggia solo dalla scrittura, da alcuni sprazzi e personaggi. Un romanzo ambizioso. Che metteva a tema l’Italia degli anni 80, già corrotta, devota al piacere effimero e alla mascherata della nuova ricchezza, alla vacanza-tutto. Spiaggia infinita, fiume di soldi. L’Italia vista attraverso il suo luna park, il palcoscenico più pacchiano, popolare e dunque credibile. Quella Riviera romagnola tornata attuale, ma più che altro come il reperto di un’altra epoca, nelle cronache nere dell’estate appena conclusa. Trent’anni dopo. Un romanzo-somma di piccoli romanzi, costruito per cerchi non concentrici e abbozzi di storie e personaggi che non s’intersecano. Al massimo si sfiorano. “Rimini” ebbe lo sperato successo di pubblico, non di critica. Angelo Guglielmi sentenziò: “Tondelli non scrive un romanzo, ma dimostra di saper scrivere un romanzo”. Il che vale una bocciatura, ma anche la riabilitazione postuma, oggi, per il romanzo-esperimento di uno scrittore che, con gli standard editoriali attuali, vincerebbe lo Strega tutti gli anni. Tondelli non riuscì a fare di Rimini la sua Nashville, la finzione del “verisimile” si avverte. Ma, letto con gusto oggi, si scopre che somiglia forse all’originale più di quanto sembrò allora. Tanto da giustificarne la riedizione, con un “bonus track” di articoli, lettere e altro che chiude il volume. Tondelli è morto nella sua Correggio nel 1991, avrebbe compiuto sessant’anni in questo settembre.
RIMINI
Pier Vittorio Tondelli
Bompiani, 364 pp., 14 euro