Epepe
Adelphi, 221 pp., 18 euro
Trovarsi in un paese diverso dal proprio, in una città che non è quella verso cui si era diretti e avere intorno a sé solo gente che parla una lingua incomprensibile e che fa di tutto pur di non aiutarti. Se poi la cosa succede al professor Budai, un esperto linguista che parla inglese, tedesco, russo, francese e molti altri idiomi – compreso il finlandese – ma non quella lingua lì, la faccenda si complica e si fa sicuramente più intrigante. Perché proprio a lui? Tutto è nato da una svista, una di quelle che può accadere a chiunque frequenti aeroporti abbastanza spesso: sbagliare uscita. Le conseguenze, si sa, sono quasi sempre spiacevoli, ma nel suo caso sono tragicomiche. Si rende conto di non essere arrivato a Helsinki, dove aveva in programma una relazione, ma in un’altra città ignota dove non può parlare con nessuno ma soltanto ascoltare risposte in una lingua fatta di suoni e consonanti, un alfabeto che ricorda quello delle rune gotiche e i caratteri cuneiformi dei Sumeri. Passano i giorni, ma continua a essere circondato da parole e da scritte misteriose che sono ovunque, una cosa inaccettabile per lui che ha dedicato diversi anni della sua vita a ricerche etimologiche e a un attento lavoro scientifico in merito. Anche quando esce dall’hotel in cui alloggia, non capisce dove si trovi: potrebbe essere in Europa, in Africa, in Asia o in qualsiasi altro continente sconosciuto. Ci sono solo pedoni e veicoli in gran quantità, ci sono rumori, c’è caos e nessuno gli dà retta perché sono tutti presi dal loro quotidiano frenetico: procedono a testa bassa e a spintoni e quel loro avanzare velocemente è in realtà un assicurarsi di sopravvivere. Budai si sente perduto (del resto, chi non lo sarebbe al suo posto?), si sente uno straniero senza diritti e attenzione, lontano dalla sua casa, da sua moglie e da suo figlio che gli mancano tantissimo. Pensa a loro in ogni momento visto che sono già passati quattro giorni (o forse cinque?) dalla sua partenza e avrebbe già dovuto essere a casa. Avrebbe già voluto riabbracciarli. Chissà cosa penseranno, visto che non ha potuto telefonare, scrivere o mandare loro un telegramma. Saranno sicuramente agitati, penseranno che sarà successo qualcosa, un incidente o altro. Per il malcapitato, quella situazione è inaccettabile, perché se si arrendesse, se cioè si uniformasse a tutti gli altri, perderebbe una battaglia da cui invece vuole uscirne vincitore. Un giorno entra in contatto con una bella ascensorista dai capelli biondi, l’Epepe del titolo, che parla anche lei una lingua sconosciuta, ma in qualche modo è diversa. O almeno lui vuole vederla così. Sin dal loro primo incontro, fatto di lunghi silenzi, gesti e suoni gutturali, Budai capisce che con lei potrà instaurare un legame che in qualche modo potrà essergli di aiuto per far sì che la realizzazione della fuga non resti una mera illusione. Quando non passa le giornate con lei, si rende conto che in quella difficile situazione la sua vita è vuota e senza senso. I due si frequentano, lei cerca di conquistarlo ma lui sa che sarà una cosa passeggera. Comica davvero la parte in cui Epepe all’inizio cerca di baciarlo, ma lui è stato dal dentista e a malapena riesce a ricambiare, avendo le labbra ancora gonfie e la gengiva ferita. Ennesimo colpo di genio per la casa editrice Adelphi che è riuscita a recuperare questo romanzo di Karinthy, scrittore ungherese vissuto tra il 1921 e il 1992. Scritto nell’anno della Primavera di Praga (1969), è un romanzo sull’annullamento dell’individuo e dell’umanità. La scelta di raccontare in prima persona quel senso di estraniamento e di angoscia crea ancora più suspense e partecipazione nel lettore, che sarà avvolto in un vero e proprio incubo. Precisa e fedele la traduzione di Laura Sgarioto, preziosa la prefazione di Emmanuel Carrère.
EPEPE
Ferenc Karinthy
Adelphi, 221 pp., 18 euro