The white negro
Castelvecchi, 48 pp., 7,50 euro
Dimenticate barbe folte, camicie in flanella a quadri, pantaloni con risvolto da acqua alta a Venezia, capelli asimmetrici leccati all’indietro o da un lato. Non sono questi gli hipster “veri”: sono diventati così ora. Settant’anni dopo. All’inizio erano altro, quando hipster era una parola ancora da scrivere, un concetto in evoluzione, qualcosa che c’entrava con il malessere esistenziale, la ribellione alla società e il jazz. “The white negro” è questo altro, è l’origine, è anni Cinquanta e tutto quello che da lì si dipanerà. E’ il ritratto – preciso e filosofico – di una nuova concezione dell’uomo, di una ipotetica rivoluzione, di una forma di anticonformismo radicato, nucleo primigenio di quel processo rivoltoso e antisistema che si incanalerà prima nel beat e poi nell’hippie.
Insomma, la base di partenza della trasformazione degli anni Sessanta. “The white negro” è anche e soprattutto Norman Mailer, il suo rivoltoso modo di scrivere e stare al mondo, la sua voglia di estremizzare, di vedere nella realtà un conflitto perenne e senza vincitori, dove la battaglia è funzionale all’evoluzione e la fine di tutto è conseguenza di questa. Hipster dunque, dall’anno 1959 almeno, prima pubblicazione dell’opera. Ma già da molto prima. E’ la Seconda guerra mondiale il discrimine generazionale. C’è chi continua a credere nel sogno americano, chi si fa due domande e chi perde coscienza e fiducia in questo. Campi di concentramento e bomba atomica hanno cambiato il mondo che va verso un duopolio, Russia contro America, socialismo contro capitalismo, atomica contro atomica.
Il clima è pesante e la paura cresce, si fa totalizzante e genera fobie e psicopatie. Alcune segrete e personali, altre rivoltose. Tra queste quella hipster, l’esistenzialista americano, ossia chi decide di “incoraggiare le tendenze psicopatiche che sono in noi ed esplorare quelle forme di esperienza in cui la sicurezza equivale a noia e quindi a malessere, per esistere nel presente, in quell’enorme presente privo di passato e di futuro, di memoria e proponimenti, nella vita in cui inoltrarsi fino ad essere esausti, in cui si deve giocare d’azzardo con le proprie energie (…) quell’energia vitale con cui è necessario essere in sintonia se non si vuole rischiare di perdere il ritmo”. Perché è tutta una questione di ritmo. Perché hip è jazz, è il suo suono, l’armonia, soprattutto la disarmonia, la vita pazza e arrembante dei musicisti afroamericani. Hip è questo, è vivere come e a ritmo di jazz, seguendo la mancanza di leggi di questa musica. E’ la disperazione che dalla consapevolezza della propria marginalità si fa forza e resiste. E’ la paranoia che “si fa indispensabile alla sopravvivenza come il sangue”, soprattutto quando l’altro, lo square, è conformismo, è il seguire uno spartito di regole e volontà decise da altri. E’ rivolta perché è nella violenza che parte dell’amore si esprime, l’odio viene espulso e tutto si pacifica.
E’ anche e soprattutto un nuovo modo religioso di vivere, perché un uomo per ridisegnare se stesso, il suo mondo, “deve avere un senso del fine, qualunque esso sia”. Una religiosità necessaria che entra dentro un panorama di assoluta relatività, dove il concetto di bene e male hanno perso qualsiasi senso e significato. E’ una grande lotta contro i mulini a vento, una battaglia non convenzionale contro la convenzione, la madre di tutte le lotte, seme culturale della Beat generation, dei Figli dei fiori, della rock culture. E’ un grande mistero l’hipster, una contraddizione in divenire, una trasformazione radicale da movimento suicida ed esistenzialista a figura alternativamente mainstream.
THE WHITE NEGRO
Norman Mailer
Castelvecchi, 48 pp., 7,50 euro