La forma minima della felicità
Baldini&Castoldi, 280 pp., 14 euro
Luce ha paura di tutto, degli uomini come della strada, di rimanere sola come di stare con gli altri. Nonostante questo, però, passa le giornate in solitudine, vivendo sul divano: “Il divano è perfetto, perché è equidistante da tutto il resto della casa dal momento che il letto è troppo a nord e la cucina è a sud”. Beve tè al limone, mangia fette biscottate con miele e marmellata e nel frattempo guarda ininterrottamente il Canale 32. Non ha scelta, perché è l’unico che prende la sua tv, un canale monotematico e senza tempo, interamente dedicato alle televendite e capace di ipnotizzarla con quella telecamera che va avanti e indietro a mostrare anelli e bracciali d’oro, mentre nel frattempo il sottopancia manda il numero da chiamare. Quel canale si limita a guardarlo (o è lui che la guarda?), non certo a capirlo, e la loro è una gara “a chi non si muove prima”. Quando è sfinita e non ne può più, fissa ‘l’Africa’, la macchia di muffa sul muro che è proprio dietro la tv, “una crosta di istanti eterni sulla parete”, ed è lì che il suo perdersi diventa quasi incontrollabile. Pensa che non ha un lavoro e che non può contare neanche sull’appartamento 51 sfitto da tempo, fino a quel momento la sua unica entrata. Vuole vivere così perché a casa le bollette e la spesa sono poca roba, tanto che il suo mantra è “a non fare si spende poco, a non essere si spende pochissimo o moltissimo”. Ma dipende. Guarda le televendite e mangia; mangia e guarda le televendite. Fissa il televisore, poi la macchia per poi tornare al televisore. Così, tutto il giorno, tutti i giorni. Si assenta e si perde nei suoi pensieri mentre intorno a lei le giornate si susseguono tutte uguali e senza che se ne accorga. Vorrebbe “due scatolette di certezze senza sospiri”, “un barattolo di possibilità miste”, “una confezione di sicurezze non dogmatiche”, “un sacchetto di decisioni non prese” e “delle alternative opzionabili in barretta”, ma queste sono cose che non si possono comprare al supermercato. E’ una lista, la sua, immaginaria e che resta tale fino all’arrivo di Viola (che lei chiama semplicemente “Bambina”), la figlia di suo fratello Yuri. Non si vedono dal Natale precedente, da quando parlava. Sì, perché adesso Bambina è muta. O meglio, ha deciso di non parlare più per punire i suoi genitori che hanno litigato e che non stanno più insieme. Da un momento all’altro si ritrova con sua zia, perché suo padre deve andare a lavoro. Luce pensa che i bambini si possano trattare come i cani (“pensavo mi avrebbe seguito”, dirà), ma ovviamente non è proprio così. All’inizio della loro convivenza c’è solo silenzio. Un rumoroso silenzio interrotto dalle parole della grande che fa domande di ogni tipo alla piccola, ma quest’ultima non risponde. Anche quando non si gira a guardarla, Luce sa che è lì vicino a lei: “Ne intuivo il volume”, dirà, “la sentivo, emanava una marea di onde elettromagnetiche espanse da un corpo minuscolo e inerte”. Quell’esserino curioso e silenzioso, almeno nei primi momenti, entrerà lentamente nella vita di Luce e la scombussolerà, diventando così la chiave del suo cambiamento. Telefonerà al Canale 32, scriverà post-it fluorescenti e attaccherà quadrati colorati che dalla sua porta arriveranno fin sotto le scale del palazzo. Saranno proprio quei foglietti a far uscire Luce in strada e a trovare, finalmente, l’inizio della sua vita. Non poteva esserci un esordio migliore per questa giovane autrice che oltre a scrivere è anche insegnante di danza. Con questo libro scoppiettante ci regala una storia sulla solitudine e sul tempo che passa inesorabilmente, anche quando non ce ne accorgiamo, una storia intima e dolorosa – a tratti esilarante (quando la narrazione viene spezzata dagli annunci lasciati dai condòmini e dall’amministratore nel palazzo) – un libro sulla crescita interiore, sulle fobie e le speranze.
LA FORMA MINIMA DELLA FELICITA'
Francesca Marzia Esposito
Baldini&Castoldi, 280 pp., 14 euro