Eravamo a Trebisonda
Equinozi, 362 pp., 16,90 euro
Delle convulsioni nazionaliste e delle operazioni di pulizia etnica che accompagnarono la fine dell’Impero ottomano e la nascita della nuova Turchia crediamo di sapere ormai abbastanza, a cominciare da quel che riguarda il genocidio degli armeni, del quale proprio quest’anno è commemorato il centenario. Non abbastanza conosciuta e narrata è invece la vicenda dei greci del Ponto, che avevano colonizzato e abitato ininterrottamente le coste nord-orientali del mar Nero fin dall’Ottavo secolo avanti Cristo. Anche loro – a seguito delle turbolenze legate al conflitto tra Turchia e Russia, durante la Prima guerra mondiale, e dopo che alla Russia era stata assegnata un’illusoria e fragile sovranità su Trebisonda – cominciarono a essere visti dalle autorità turche come intrusi da trattare con sospetto, uniformemente sospettati di intesa con il nemico. Tutto ciò, nei luoghi che da sempre quei greci pontici consideravano la loro patria, dove avevano vissuto in pace e prosperità nei lunghi secoli di dominio ottomano e dai quali saranno tutti cacciati. Quello che sarebbe stato definito “scambio di popolazioni” tra Grecia e Turchia – sancito dal trattato di Losanna del 1923 – i greci lo chiamarono “catastrofe”. E catastrofe fu, a partire dalle proporzioni (si calcola che furono un milione e mezzo i greci dell’Anatolia espulsi dalle terre turche, contro circa trecentomila greci di fede islamica trasferiti in Turchia) per giungere alle conseguenze sociali ed economiche che l’arrivo di una gigantesca massa di diseredati privi di tutto provocò nella giovane e povera nazione ellenica. L’autore di questo libro ha potuto, per motivi famigliari e per “filellenismo” culturale non meno che affettivo, conoscere e farsi raccontare da alcuni greci del Ponto, bambini all’epoca della “catastrofe”, e dai loro discendenti, che cos’era stata la vita a Trebisonda, il grande porto cosmopolita che nel 1461 – otto anni dopo Costantinopoli e un anno dopo Mistrà – era stata l’ultima roccaforte bizantina a cadere in mano agli ottomani. La città conservava e conserva tuttora, turchizzato, l’antico nome di Trapezunte che le avevano dato i greci di Mileto, coloro che l’hanno fondata quasi tremila anni fa. Attaverso i racconti incrociati dei vari protagonisti che parlano sempre in prima persona – il vecchio calzolaio Lefteri, suo figlio Stavros e la nuora Artemisìa, il nipote non ancora decenne che porta il nome del nonno e fa il lustrascarpe, il notabile Nicos Karayorgou e il dottor Pascalis, la borghese colta Vassilia – possiamo ripercorrere, con un’immediatezza più eloquente di qualsiasi analisi politico-storica, il precipitare degli eventi che portarono alla cacciata dei greci pontici dalle loro terre. Fu l’inizio di una diaspora che per molti di loro avrebbe avuto tormentate tappe intermedie, per esempio in Russia, e che spesso non riuscirà a trovare quiete nemmeno nella fin troppo idealizzata madrepatria. A quei figli separati da millenni, che mai avevano smesso di sentirsi parte dell’Ellade, che ne parlavano la lingua e ne coltivavano le tradizioni con tutto l’amore e la costanza di cui i greci sono capaci, a quei profughi carichi di speranza che ripercorrevano a ritroso il cammino degli Argonauti, la Grecia reale riserverà non di rado amare sorprese: ancora freddo e fame, baracche e ghetti, quarantene, disprezzo e intolleranza. Niente di strano, allora, se i beati tempi di Trebisonda, quando tutti riuscivano a vivere in pace, quando essere turchi, greci, armeni o ebrei non ostacolava l’amicizia e il senso di appartenenza a una stessa comunità, e quando tutti gli idiomi risuonavano nel grande e caotico porto del mar Nero, appaiono agli occhi di chi li conobbe come una perduta e perfetta età dell’oro.
ERAVAMO A TREBISONDA
Emidio D'Angelo
Equinozi, 362 pp., 16,90 euro