L'amicizia è la vera patria

Maurizio Stefanini
Joseph Roth e Stefan Zweig
Castelvecchi, 91 pp., 12 euro

    Joseph Roth è considerato uno dei grandi nomi della letteratura mitteleuropea del Ventesimo secolo. Al contrario, Stefan Zweig è sostanzialmente un dimenticato. Le sue celebri biografie storiche sono ormai un pezzo di antiquariato, e il suo lascito più importante è oggi considerato “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”, dolente testimonianza di un nostalgico della Belle Epoque e dell’Austria-Ungheria sulla distruzione di una civiltà. In vita, però, la loro posizione era esattamente opposta. Era Zweig lo scrittore di grande successo e alla moda: nato nella cosmopolita Vienna, figlio di un industriale, proprietario di un castello, raffinato uomo di mondo. Roth, più giovane di dieci anni e proveniente da una città all’estremo confine orientale dell’Impero Asburgico oggi in Ucraina, era invece il prototipo dell’uomo marginale: baffi biondi sfilacciati, la cenere sulla giacca e la tristezza negli occhi, autore di romanzi verità di minor successo, alcolista, socievole, generoso, prodigo di racconti, sempre circondato da amici, ascoltatori e sostenitori e, nello stesso tempo, uomo infelice e incattivito. Entrambi ebrei loro malgrado, ma di due polarità agli antipodi. Entrambi, poi, impauriti dal nazismo:  se Zweig cercava di evadere dall’incubo accentuando la propria apoliticità, Roth (dopo una militanza giovanile nell’estrema sinistra) divenne un attivo e inattuale sostenitore della restaurazione asburgica. Eppure, erano amici e il più fortunato Zweig si sforzava di aiutare l’altro in tutti i modi. Raccontato dal recente romanzo di Volker Weidermann “L’estate dell’amicizia”, questo strano ma solidissimo sodalizio è ora testimoniato anche da questo epistolario, cui è stato dato come titolo il finale di una lettera di Roth del 24 luglio. Una missiva quasi commovente, per il modo in cui l’autore vi ostenta la propria assoluta mancanza di senso politico: “Gli Asburgo arriveranno. Non si inganni, la prego, non su una cosa così evidente. Lo vede anche adesso, che avevo ragione. L’Austria sarà una monarchia. Il futuro mi darà ragione”. Ma conclude: “Alla fine, l’amicizia è la vera patria. E lei può star sicuro che le resterò fedele più di chiunque altro”.  Roth è sempre così: caustico, rabbioso, esorta l’amico fraterno a reagire con più decisione all’incombere della barbarie. “Lei non ha ragione nel dire che siamo diventati tutti pazzi. C’è una compensazione, nel mondo, tra logica e follia. In ogni caso noi, noi che abbiamo ricevuto la spada della ragione, non abbiamo il diritto di buttarla via”. “Si è aspettato troppo a lungo. Quelli che rappresentano la ‘coscienza del mondo’ sono rimasti addormentati per troppo tempo. Se solo ora iniziano a parlare, gli altri saranno sordi”. Zweig risponde in modo rassegnato e disilluso, ma mette in guardia l’altro dalle sue pulsioni autodistruttive. “Al di là della sua salute, lei non deve superare un certo livello alcolico, anche solo per il fatto che è immorale spendere per il bere più di quanto sia necessario in una normale famiglia”. “La prego di levarsi dalla testa l’idea che qualcuno ce l’abbia con lei. Non dimentichi che viviamo in un mondo al tramonto e dobbiamo essere felici, se intanto riusciamo a sopravvivere a questo tempo”. La prima lettera è del 22 maggio 1933: quattro mesi dopo l’arrivo di Hitler alla Cancelleria. L’ultima è datata “prima del 17 dicembre 1938”. “Caro Joseph Roth, le ho scritto tre o quattro volte sempre senza risposta”. “Un saluto con tutto il cuore e speriamo che (nonostante tutto!) il prossimo anno non sia peggiore di quello che sta per finire”, sono le ultime parole scritte da Zweig. In realtà, non si vedranno più. Roth morirà in povertà a Parigi il 27 maggio 1939. Zweig, dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale andrà prima a New York e poi in Brasile, dove morirà suicida nel 1942.

     

    L'AMICIZIA E' LA VERA PATRIA
    Joseph Roth e Stefan Zweig
    Castelvecchi, 91 pp., 12 euro