La leggenda del trombettista bianco
Fazi, 236 pp., 16 euro
Prima o poi smetteranno di suonare anche i suoi dischi, e la puntina gratterà a vuoto sul solco. Quando quel momento arriverà, Rick Martin sarà morto davvero, morto e sepolto”. Dorothy Baker stava male al solo pensiero che un artista così potesse essere dimenticato e decise di ricordarlo raccontandone la storia attraverso questo romanzo, pubblicato negli Stati Uniti nel 1938. La storia di Rick Martin è in realtà quella di Bix Beiderbecke, il più grande musicista degli anni Venti. A Los Angeles in quegli anni la musica era un privilegio per pochi, la si poteva ascoltare solo nei club. Il jazz poi era roba da neri, non ci si poteva fare niente, erano loro i migliori. Rick a dieci anni era un bambino molto solo e si portava già sulle spalle quel fardello disperato che è l’anima dell’artista. Morirà giovane, glielo si leggeva nello sguardo. I suoi occhi non avevano un colore definito, bruciavano e basta. Un giorno scappò dalla scuola da cui in tutti quegli anni aveva imparato a rispondere solo “non lo so” ad ogni domanda e si ritrovò, senza sapere come mai, in una specie di chiesa vuota con un pianoforte nascosto in un angolo. A Rick di Dio e dei suoi canti non importava un granché, ma quel giorno, suonando l’Adeste Fideles, capì che voleva vivere di musica e nient’altro. La fortuna soccorre quasi sempre i buoni e i loro sogni. Poco dopo, mentre sistemava birilli in una sala da bowling per guadagnare qualche dollaro, Rick conobbe Smoke Jordan, un ragazzone nero grosso il doppio di lui che lavava i pavimenti e veniva licenziato ogni settimana. Smoke fu la prima persona a cui Rick parlò per davvero, la prima a cui aveva qualcosa da dire. In realtà, ogni volta che lo vedeva, rimaneva in silenzio ad ascoltare le storie che lui gli raccontava. In confronto, Rick non aveva niente di interessante da dire. Smoke parlava della sua batteria, di jazz e del Cotton Club. Negli anni Venti un bianco e un nero non potevano diventare amici, erano troppo diversi. Rick lo sapeva ma cercava di non pensarci. Possiamo andare a sentire Jeff Williams una di queste sera?, chiese un giorno a Smoke. Lui gli strinse la mano e gli rispose di sì. Quella fu la prima volta che entrambi strinsero la mano a qualcuno. La prima volta che Rick Martin entrò al Cotton Club se ne accorsero tutti che quello lì, pur essendo bianco, era uno di loro; aveva lo sguardo dei pazzi e degli innamorati, pensava solo al jazz. “Come ti è sembrato il concerto?”, gli chiesero alla fine. “E’ stato…”, poi non disse niente. Era stato talmente bello che non c’era nient’altro da aggiungere. Dopo quella sera, cominciò a suonare la tromba tutti i giorni, voleva diventare il più bravo di tutti. “E’ una formula molto semplice: fai del tuo meglio e forse piacerà a qualcuno”. Tutto scorreva così velocemente che non c’era il tempo di pensare a niente che non fosse il jazz. L’estate in cui aveva vent’anni, Rick era diventato una stella. Una sera, mentre il suo pubblico aveva smesso di ballare per poterlo applaudire come meritava, lui posò la tromba e uscì dalla porta del retro. Aveva capito la differenza tra avere successo ed essere cacciato a calci. Era strano però, tra le due cose non c’era tutta questa distanza. Stava diventando un uomo. La prima volta che era stato al Cotton Club, quando gli avevano offerto un sorso di gin, lui aveva fatto finta di accettarlo ma non aveva bevuto, era troppo forte. Adesso non riesce più a farne a meno. I suoi occhi erano sempre gli stessi, duri e luminosi come il rame al sole. La vita era meravigliosa, durava poco più di un attimo. “Non ho mai sentito nessuno suonare così” aveva detto Luis Armstrong a proposito di Bix Beiderbecke. Già solo per questo una storia così merita di essere ricordata, la storia di un bianco che suona divinamente il jazz, la musica dei neri.
LA LEGGENDA DEL TROMBETTISTA BIANCO
Dorothy Baker
Fazi, 236 pp., 16 euro