Storia dell'Irlanda dal 1845 a oggi
Eugenio Biagini, normalista lucchese e professore al Sidney Sussex College di Cambridge, colma una grossa lacuna con un libro accessibile pur nel rigore della ricerca. L’isola è luogo di contrasti e contraddizioni, dovuti in gran parte alla geografia che ne ha modellato la storia e i suoi sviluppi: le regioni a est – Ulster e Dublino in particolare – per invasioni prima e scambi poi si sono mantenute al passo coi tempi (religiosamente, culturalmente, economicamente) al contrario di quelle a ovest, separate da colline e paludi e rimaste molto arretrate. Avendo sempre cercato di difendere la propria identità a partire dai vichinghi e poi da scozzesi e inglesi, ha finito per allearsi con chiunque fosse in guerra con i suoi illustri vicini, dal Papa a Luigi XIV a Napoleone a Hitler, il che spiega l’istintivo sospetto di questi ultimi, aumentato dall’ospitalità concessa ai criminali nazisti a guerra finita. Dall’altro lato, invece, il sedimento di varie etnie e culture religiose – incluse le ondate di profughi Ugonotti – ha creato le basi per il melting pot democratico e tollerante rivelatosi di colpo a fine Novecento e che ne ha fatto il paese dell’Unione europea con il boom più strepitoso e la ripresa più rapida dopo la crisi mondiale del 2008. Partendo dal 1845, data d’inizio della “grande carestia” protrattasi fino al 1850, il libro sfata una serie di miti, molti dei quali ancora radicati. La carestia, con un milione di morti, fu conseguenza della carenza di patate, causata dalla muffa che afflisse tutto il nord Europa. La popolazione che si nutriva di tuberi si indebolì progressivamente, acuendo malattie endemiche. Il governo britannico reagì tardivamente, preso dai propri problemi interni.
L’indipendentismo non fu di matrice cattolica: gli iniziatori furono protestanti, come gli estremisti anglofobi Parnell e Mitchel e il primo presidente irlandese, Hyde. Protestantesimo poi è un termine che comprende varie denominazioni e sostrati cultural-religiosi – dalla Church of Ireland nelle cui gerarchie fiorirono illuministi come il filosofo George Berkeley (1685-1756) o scrittori come Jonathan Swift (1667-1745), alla più rigida chiesa presbiteriana degli immigrati scozzesi, a quella metodista, formatasi nel Settecento e a cui aderirono i ceti bassi tra cui numerosi cattolici. Senza dimenticare battisti e quaccheri. Quanto alla chiesa cattolica, essa divenne “romana” (con la rigidità dei neofiti che la caratterizzò per oltre un secolo) solo con il cardinale Cullen, amico di Pio IX, ma le gerarchie, privilegiate sotto gli inglesi, furono sempre tiepide nei confronti dell’indipendentismo. Altro mito sfatato è quello del ribelle anti imperialista, quando invece gli irlandesi rappresentarono i pilastri dell’impero, nell’esercito e nell’amministrazione. Così come protestanti e cattolici del nord e del sud combatterono fianco a fianco durante la Prima guerra mondiale, e solo un misto di sviste e errori banali portò all’Insurrezione di Pasqua del 1916.
In ogni caso, la teocrazia che ne seguì – da De Valera in poi – non era certo il modello di paese che sognavano gli iniziatori, tanto da far indignare uomini del calibro del protestante Beckett e del cattolico Joyce. La chiesa cattolica proibiva non solo l’ingresso in una chiesa protestante (anche per funerali) ma addirittura la frequenza dell’ottimo Trinity College, a Dublino. Circostanze che hanno rallentato il processo di riconciliazione fin quasi alla fine del Ventesimo secolo. L’Irlanda di oggi deve moltissimo a una donna coraggiosa e tenace: Mary Robinson, cattolica con marito e ascendenza protestante: in meno di quindici anni ha portato il Paese a livelli economico-sociali sorprendenti.
STORIA DELL'IRLANDA DAL 1845 A OGGI
Eugenio F. Biagini
Il Mulino, 242 pp., 18 euro