Città in fiamme

Edoardo Rialti
Garth Risk Hallberg
Mondadori, 1.005 pp., 25 euro

    Certe volte le citazioni in esergo sono davvero parte integrante di un romanzo – Dio ce ne scampi dagli ennesimi Baudelaire o Heidegger neppure tradotti. Invece è una battuta molto “londinese” del Chesterton più kafkiano (quello dell’“Uomo che fu Giovedì”) ad aprire questo affresco americano (ben tradotto da Massimo Bocchiola), con un dibattito quasi rabbinico sulla bruttezza ordinaria dei lampioni, che però consente di ammirare la gloriosa vitalità degli alberi. A un secolo di distanza, è davvero un’immagine azzeccata per accennare ciò che è possibile inseguire, al pari dei protagonisti, nelle tante onde agitate in quel mare che è la New York sul finire degli anni Settanta, da un misterioso omicidio fino al grande blackout del 13 luglio, e i suoi incendi, fisici ed emotivi. “La prima regola nella gestione di una crisi è superare i primi tre secondi. Poi – una volta provvisti di una sorta di storia in cui collocare le cose – dimenticheremo la sensazione provata in quei momenti iniziali, quando il futuro era ciò che più temevamo”.
    L’esordio di Hallberg è stato premiato con un anticipo milionario, di quelli che in gergo si definiscono da anni Ottanta, per poi scatenare la controreazione di alcuni recensori. Giudicare un libro da che assegno ha strappato o da quante copie ha mietuto, è guardare le cose da una prospettiva deformata. Questo è semplicemente un bel romanzo, ironico, dolente e con una prosa che si ricorda: “Sembrava che oggi ogni americano avesse il suo gemello oscuro, la possibilità di una vita vissuta in un modo diverso, a fissarlo dalle vetrine e dallo specchio del bagno”. Stephen King ha parlato di grande romanzo dickensiano – e in parte ha certamente ragione, se pensiamo in termini di turbinosa carrellata urbana, con i suoi portieri d’albergo che comunicano con i walkie-talkie, papponi, ragazzini innamorati del punk, rivoluzionari straccioni che bofonchiano che persino gli uccelli in terrazzo li vogliono fottere, donne che si procurano il vomito con la feroce tenacia d’un rito religioso o sessuale.
    Ma ciò costituisce in fondo solo la cornice. Il quadro qui non è sociale, ma esistenziale, persino mistico. Per Henry James, come notò Steiner, l’America compensava la mancanza di una vita culturale e cittadina col “senso di meraviglia e di mistero che nasce dall’incontro con uomini che non possono essere collocati in nessuna delle ben delineate categorie di una società fissata”.
    Una forza che non è andata affatto perduta. Al pari di altri giovani romanzieri, la città in Hallberg è la città, non un’alternativa chiassosa e luccicante alla ricerca del senso della vita autentica, come in Tolstoj, né solo il luogo dove si perdono le illusioni, come in Balzac – “l’esilio autoimposto le stava facendo scoprire di essere umana in modo frustrante… eccola, dopo tre anni a New York, ancora alle prime armi nell’impresa di ridimensionare le sue aspettative a misura della sua vita reale. Era come cercare di far rientrare il dentifricio nel tubetto”.
    La metropoli americana si rivela essere ciò che mare e foreste erano per i loro narratori ottocenteschi, il luogo privilegiato per esplorare la misteriosa connessione che lega tutti e ciascuno, al crocevia dei nostri destini possibili: “Dietro le finestre di altri appartamenti si accendono i televisori, ma nessuno si preoccupa di tirare le tende. E ho di nuovo l’impressione che le linee in cui è stata ingabbiata la mia vita – tra passato e presente, dentro e fuori – si stiano dissolvendo. Che anch’io potrei ancora essere consegnato alla libertà”.

     

    CITTA' IN FIAMME
    Garth Risk Hallberg
    Mondadori, 1.005 pp., 25 euro