La selva dei morti
Skira, 128 pp., 14 euro
Johannes non avrebbe mai pensato che la sua vita ordinaria, fatta di studi e ricerche, di incontri e conferenze, potesse essere distrutta nel giro di pochi minuti dalla violenza e dall’arroganza nazista. E’ lui “che agisce e che patisce in questo libro” scritto da Ernst Wiechert nel 1939, per anni nascosto nel giardino della sua casa e pubblicato solo più tardi perché l’autore, dopo aver difeso un pastore luterano che si era esposto contro il regime, era stato internato a Buchenwald. Poco dopo però, fu liberato e ottenne anche il permesso di continuare a pubblicare i suoi libri, a condizione che non contenessero critiche al regime. Nel giro di qualche tempo, divenne l’autore più letto di quegli anni. “Der Totenwald” (La selva dei morti) è uno dei libri più conosciuti nel suo paese, e grazie a Skira è ora possibile leggerlo anche da noi nella precisa traduzione italiana di Lavinia Mazzucchetti. Non si può non pensare a lui, dunque, nonostante l’autore utilizzi la terza persona per raccontare la vita e la tragica esperienza di Johannes in pagine come queste che altro non sono che “un preludio alla grande Sinfonia della Morte che sarà scritta un giorno da chi ne sarà più degno”. Il prigioniero non guarda al futuro, ma alla vita che aveva dovuto lasciare e all’unica cosa utile da fare per opporsi alla violenza: “Avere un contegno dignitoso”, così da dimostrare che l’elemento umano in lui non era inferiore a quanto aveva insegnato nei suoi libri. L’angoscia e la disperazione hanno spesso la meglio, perché a Buchenwald è costretto ad assistere all’annientamento di ogni forma di umanità e a violenze di ogni genere, torture fisiche e mentali che gli faranno capire la triste e irreversibile direzione verso cui è diretto il suo paese e la sua gente. Saranno solo il crollo psicofisico e l’aiuto dei suoi compagni di sventura a farlo andare avanti, a farlo sopravvivere; ma una volta fuori nulla sarà più come prima. “Sono rimasto sulla soglia, ho guardato l’oscuro palcoscenico e ho annotato non tanto ciò che i miei occhi hanno scorto, quanto ciò che l’anima ha veduto”, scrive Wiechert/Johannes mentre descrive se stesso e quello che scoprì in quel campo di concentramento. Sapeva che il male dell’anima lo avrebbe potuto distruggere più di quello del corpo. Lì dentro comprende subito che bisogna “vivere con la porta chiusa”. “Solo se non si vedeva e non si udiva nulla, spiega, era possibile resistere”. Tutto gli ricorda molto il sogno spaventoso di “Delitto e Castigo” di Dostoevskij, quando il cavallo è lentamente ucciso e il fanciullo si torce le mani. L’ossessione cominciava il mattino all’appello e cessava soltanto nelle ombre del dormitorio, quando i brevi sospiri dei dormienti riempivano il silenzio, ma non finiva lì perché i suoi sogni si caricavano di tutto il peso della giornata opprimendogli il cuore. Rinchiuso in una cella lunga otto passi e larga tre, con il pavimento di linoleum e le pareti a calce da cui si poteva scorgere anche un pezzo di cielo, scoprì che si può essere infelici anche dormendo e non soltanto nel sogno. Pertanto, quando fu “chiamato a testimoniare”, riuscì a trasformare i suoi pensieri e i suoi ricordi in una voce che doveva farsi sentire, che doveva raccontare per necessità, permettendogli di liberarsi – attraverso la scrittura – dell’odio e del risentimento. Denuncia tutto ciò che accadeva lì dentro, ma anche i tanti uffici che all’epoca erano occupati da persone indegne, come gli impostori che dirigevano i giornali, oltre alla repentina trasformazione del suo popolo divenuto in pochi anni un popolo di schiavi presenti un po’ ovunque: nelle università, nelle scuole, nei seggi dei tribunali come sui ponti delle navi, negli eserciti o sulla scrivania dei poeti. Wiechert vuole salvarci facendoci rivivere i suoi ricordi e le sue esperienze di quella discesa agli inferi. Leggerlo, anche se doloroso, è necessario.
LA SELVA DEI MORTI
Ernst Wiechert
Skira, 128 pp., 14 euro