I profughi

Simonetta Sciandivasci
Arno Schmidt
Quodlibet, 160 pp., 16 euro

    La Seconda guerra mondiale è appena finita e la Germania non ha più un cuore, né periferie: ha solo nuovi occupanti. I territori a est del fiume Oder sono diventati polacchi e cechi: d’un tratto, i dieci milioni di tedeschi che ci vivevano non sono più a casa loro. Devono scappare. Chi non scappa viene espulso. Viaggiano soprattutto verso il sud e l’ovest (“si apparteneva in qualche modo all’ovest”), accontentandosi di rifugi momentanei (andrà così fino a quando non verranno regolarizzati i reinsediamenti e distribuiti i sussidi, cioè non prima del ’52): nessuno li vuole. Devono spostarsi di continuo, esibire documenti, subire gli sguardi incarogniti dei propri connazionali, viaggiare ammassati sui treni dell’ex impero “fondato non dalla democrazia ma da Bismarck” (Hitler era solito sottolinearlo). Sono borghesi incazzati: “I contadini ora sono i soli a strafogarsi di nuovo e strappano al resto della popolazione le ultime briciole”, fa dire Arno Schmidt a uno dei due protagonisti, professione scrittore (agli scrittori non saranno riconosciuti i sussidi: verranno spedite lettere con l’invito a trovarsi un “lavoro dignitoso”), che sul treno dalla Bassa Sassonia, occupata dai britannici, alla Renania Palatinato, occupata dai francesi, incontra Katarina, cui la guerra ha tolto gamba destra e marito. Si avvicinano, si tengono per mano, sentono le stesse puzze, sopportano gli stessi compagni di viaggio e gli stessi burocrati che ogni tanto salgono in carrozza e leggono liste “come monologhi del Faust”, spedendo persone come se non avessero un destino ma solo una direzione. Lo scrittore e la vedova guardano la Germania dai finestrini e vedono i villaggi “tondi e rannicchiati, con verruche per tetti”; l’agricoltura disperata e l’industria sparita; la guerra che è finita ma tutt’altro che passata. “Mi si dovrebbe dipingere, con un libro in mano e Katarina nell’altra e non intendiamo far niente”, pensa lui quando stanno sistemandosi in un appartamento condiviso di due stanze su un cortile con gabinetto unico per sessantacinque persone. Amore, baci, coccole non ce ne sono (l’acme dell’intimità è Katarina che dichiara di non volersi sposare per non perdere la pensione del marito morto) ed è per questo che “I Profughi”, edito ora per la prima volta in Italia, è una storia d’amore. Non per forza ci si ama per raccontarsi frottole sugli arcobaleni: ci si ama anche per sopportare il reale rimanendoci dentro. L’amore romantico sradica, ma il profugo, dice Goethe nel “Faust”, è già “lo sradicato, l’inumano senza quiete e mete”, può scappare ma non evadere. Ne “I Profughi” evasione non ce n’è e per questo sembra quasi beffardo, abituati come siamo allo strappo delle lacrime, che in una storia di persecuzione ci sia tanto spazio per l’ironia, la filosofia, la letteratura, l’agnosticismo colto (“nessuno dei nostri sei classici è stato credente”). Impassibili questi tedeschi, penseremo, forse. Liberi questi tedeschi, deve aver pensato Schimdt, invece.   
    Quando, nel ’52, Schmidt invia all’amico Walser una copia del libro, allega un biglietto in cui spiega che gli sta consegnando un “romanzo svelto, non breve” perché “non ho tempo per le accuse, io descrivo”. Un romanzo dove a essere protagonista non è una condizione, ma la sua perdita e dove più che pensare, si vede. Le fotografie in parole che introducono ogni capitolo, Schmidt le aveva scattate di persona, essendo stato lui stesso, insieme a sua moglie, un profugo di quei dieci milioni. Scrive poi Walser che Schmidt “ha rifuso le parole nell’anonimato”: in questo modo, di quella storia che la Storia trascura, ha lasciato il quadro e non l’impronta, la verità e non il giudizio.

     

    I PROFUGHI
    Arno Schmidt
    Quodlibet, 160 pp., 16 euro