La versione di C.

Gabriella Cantafio
Cristiano De André - Giuseppe Cristaldi
Mondadori Electa, 197 pp,  18,90 euro

    Per vedere il passato basta guardare le stelle: stenditi qui che ti insegno come fare”, sussurrava un saggio capofamiglia a un figlio bramoso di imparare a leggere il cielo nelle notti più buie. A distanza di cinquant’anni, quel figlio, Cristiano De André, primogenito di Fabrizio, si è sdraiato nuovamente. Stavolta, sotto lo sguardo inquisitorio dei detrattori, spogliato di ogni maschera, svuotando un fardello di aneddoti che si confondono tra riso e pianto.
    Giunto a trent’anni di carriera, il figlio di Faber ha deciso di rompere il silenzio e dare la sua versione dei fatti con un’autobiografia, scritta a quattro mani con Giuseppe Cristaldi, che cadenza la sua complessa esistenza in quattro tempi. Dalla tormenta di neve durante la quale venne al mondo sino alla tempesta di una vita impetuosa, ove a salvarlo c’è sempre la famiglia sgangherata ma importante. Eroina, alcol, liti furiose, fughe e improvvisi slanci emotivi: tanti, troppi gli abissi in cui sprofonda il giovane De André, che cerca di riemergere con la sua genialità ma più volte viene inghiottito dal vortice della droga che rende invisibili. A fare da sfondo  a cadute e risalite si alternano la sua città natale, Genova, con le finestre di carta velina, la campagna ligure, e la “mitopoetica” Portobello che inebria con l’effluvio di mirto, ginestra e buredda, sino alla capitale britannica e Tempio Pausania che lo vide collegiale svogliato.
    Come afferma Oliviero Malaspina, la vita di Cristiano si rivela “un puzzle affascinante dominato da bellezza e fragilità”. Ed è proprio la bellezza della musica che gli permette di coltivare il suo talento artistico e aggrapparsi al potere salvifico dei primi dischi e tournée. Dopo aver vissuto il dramma del sequestro di Faber e  Dori Ghezzi, De André incrocia la solitudine irrisolta del padre, che fino a quel momento era riuscito a essere orgoglioso del proprio figlio solo per un dentice pescato a sei anni e un secondo posto a Sanremo conquistato a trent’anni, e insieme danno vita a una collaborazione artistica. In nome del richiamo del sangue, il cantautore genovese recupera il rapporto filiale con un capofamiglia ingombrante, incapace di chiamare col proprio nome un figlio poco cristiano e tanto irriverente. Ma nel mezzo di una catarsi interiore sopraggiunge la malattia a far incespicare l’armonia ritrovata dopo silenzi interminabili. A inibire un padre ormai spacciato che decide di non farsi vedere sofferente dal figlio. Resta così il rimpianto di non esser riuscito a equilibrare l’elastico continuo e snervante che lo portava a fuggire dagli affetti famigliari, sospinto dall’incapacità di essere figlio e genitore allo stesso tempo. “Cos’è la vita in un libro se non una sana trappola di verità?”, si domanda Cristiano De André spalancando, attraverso una narrazione intima e tormentata, la porta dei ricordi. Quella stessa porta che, qualche decennio prima, socchiuse per spiare il padre mentre dedicava un’ode d’amore alla madre. Così si ritrova bambino, bramoso di rincontrare lo sguardo di quell’uomo che troppo spesso ha “visto di spalle, che se ne andava, oppure di fronte, mentre gli mutavano gli occhi e quasi faceva paura”.
    Si rifugia nella discarica delle occasioni perdute, e qui dedica un timido elogio al padre burbero quanto colto. “Mi guardo allo specchio e ti rivedo ancora nel riflesso, prego che si aggiungano i volti dei miei figli, quasi che fossimo pronti a una foto di famiglia, con i sorrisi genuini e l’armonia pulsante. Come un tempo” gli scrive, come se non fosse mai andato via. All’improvviso scompaiono i fantasmi, e diventa più nitido il sentiero del futuro da percorrere a passi sicuri.

     

    LA VERSIONE DI C.
    Cristiano De André - Giuseppe Cristaldi
    Mondadori Electa, 197 pp.,  18,90 euro