Il libro dei Baltimore

Matteo Matzuzzi
Joël Dicker
La Nave di Teseo, 592 pp., 22 euro

    Ripetersi dopo un capolavoro è difficile. Il successo, si sa può dare alla testa, come racconta una delle massime più abusate della storia. Specie se il successo è improvviso e investe uno scrittore che di anni ne aveva ventotto all’epoca del primo grande exploit. Joël Dicker, che sempre giovane è (trentuno anni), ha usato saggezza, aspettando qualche anno prima di mandare in stampa il suo nuovo romanzo, altre 600 pagine scarse dopo le 770 de “La verità sul caso Harry Quebert”, il capolavoro che quattro estati fa portò alla ribalta un ragazzo ambizioso che al debutto aveva venduto più o meno 3.500 copie, senza per questo drammatizzare o decidere di cambiare mestiere. Neanche quando si rese davvero conto che i romanzi da lui proposti e rifiutati dalle varie case editrici erano stati ben cinque (“La verità sul caso Harry Quebert” è il sesto in ordine di scrittura e, ça va sans dire, accettato). Da perfetto svizzero fedele allo stereotipo classico della metodicità, Dicker ha raccontato di aver scritto “Il libro dei Baltimore” di mattina, prima che albeggiasse, alle 4.30. Si metteva lì, al computer, e riempiva pagine su pagine. “Ho l’impressione di rubare tempo al tempo. E’ in questi momenti che l’ossessione raggiunge il massimo della bellezza: quando trascende la nostra nozione del tempo. E’ in questo momento che tutto diventa possibile”, diceva: “Il mio progetto è ovunque, è sempre, è incessante. E’ ossessivo”. L’idea, insomma, c’era, a differenza del protagonista dell’opera, il solito Marcus Goldman che deve andare a Boca Raton (Florida) per cercare l’ispirazione giusta, tra una birra e una partita di scacchi con il simpatico vicino, il vedovo Leo che vorrebbe tanto scrivere pure lui un libro ma non sa né come né su cosa. Il risultato è quello che ci s’aspetta guardando la copertina così simile a quella dell’opera precedente.
    Il protagonista è sempre Marcus Goldman, il teatro in cui si svolge tutto è diviso tra Baltimora, New York, Madison (Connecticut) e la Florida.  Si parte dagli anni Ottanta, si arriva al 2012; si comincia e si chiude con un Thanksgiving. Niente ragazze scomparse nel nulla, stavolta, ma una famiglia (i Goldman) divisa in due parti, tre cugini fin troppo amici per la pelle, una ragazza che li farà innamorare tutti e tre, zii ricchi e padri normali, madri brontolone e zie super. Dietro l’idillio apparente, fatto di megaville con troppe stanze e pranzi del Ringraziamento luculliani, c’è la Tragedia. Parola che ricorre ovunque, sempre, quasi a ogni pagina. Dicker scandisce il tempo… “mancava un anno alla Tragedia”, poi “un mese”. E sembra impossibile che dietro quell’incanto incombesse una tragedia. Ci sarà, il lettore inizierà a percepirne i contorni lentamente, prima di capire tutto, collegando i fili e le tracce che l’autore aveva disseminato qua e là, a cominciare dalle prime righe del romanzo, nei due piani temporali che scorrono paralleli e costringono a immergersi ancora di più nelle pagine (il corpo del carattere è grande, quindi non si fa fatica) per tentare di sciogliere ogni enigma. I pochi criticoni che già stroncarono “La verità sul caso Harry Quebert” si sono rianimati, chi sottolineando lo stile di scrittura liceale di Dicker (allora, per le stesse ragioni, dovrebbero indignarsi per l’uso naïf della punteggiatura che fa Cormac McCarthy), chi addirittura accusandolo di voler scimmiottare Roth (Philip). La verità è che pochi, oggi, riescono a tenere il lettore incollato fino alla fine d’un romanzo senza per forza indurlo a ragionare sul senso della vita o sui massimi sistemi che governano il mondo. Dicker c’è riuscito e la speranza è che aspetti almeno altri tre anni prima di svegliarsi all’ora d’un monaco medievale per consegnarci un altro libro di siffatta mole.

     

    IL LIBRO DEI BALTIMORE
    Joël Dicker
    La Nave di Teseo, 592 pp., 22 euro

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.