Ritratti e immagini
Alberto Arbasino
Adelphi, 353 pp., 23 euro
Confrontarsi con “Ritratti e immagini”, ultimo libro di Arbasino, significherà interrogarsi sulla qualità e sopravvivenza della letteratura italiana. Se è vero che in Italia, Arbasino a parte, affiancato da qualche terzetto o quartetto di nomi, oggi di scrittori non ve ne sono se non a titolo abusivo, allora questa volta si potrà utilizzare il temine “opera” senza imbarazzo e “scrittura” liberi da ogni senso di colpa. “Ritratti e immagini” sembra il “post” e l’aggiornamento del precedente “Ritratti italiani”. Ma a differenza di quello, l’atmosfera complessiva è più analitica, con qualche nota di pathos in meno. Questa volta poi, le fotografie dei nomi e cognomi appartenenti alla leggenda culturale sono internazionali: compositori, scrittori e registi, dames fatales, filosofi, regnanti e direttori d’orchestra, da Berg a Camus, Bergman, Garbo, Adorno fino a Elisabetta II e Bernstein. Il dato iconografico-mitico che circonda le celebrità è ripulito da ogni tensione al feticismo e l’elemento realistico è concesso soltanto se munito di scanzonatura in un contesto parodico. Mentre scrive a proposito delle vite e delle opere degli altri, Arbasino compone la sua autobiografia intellettuale, mimetizzandola nel regesto degli illustri e delle loro idee. La bellezza della ritrattistica arbasiniana è nelle tutele verso la libertà del lettore, preservandogli spazi di immaginazione pur nell’andirivieni generoso di ellissi ed elenchi di cui è composta la narrazione. La struttura di questi portrait minuziosi e solenni (senza le brutture dello zelo) è l’ipertesto flamboyant, e il registro parlato suona come una conversazione-confessione che non ammicca al confidenziale. Il distacco è comunque divertito, sempre col giusto quoziente di pudore che scongiura l’impudenza cockney (in voga presso molti biografismi in circolazione).
Come per Proust, anche nell’immaginario di Arbasino vige un “sistema” dei nomi, un’estetica dei luoghi e dei cognomi, in cui lo scrittore e il narratore sono omologhi ma non analoghi. Il nome proprio è reso attraverso la reminiscenza, e a ognuno di questi è associata una leggenda spirituale specifica. L’io di Arbasino “prossimo allo zero, che sparisce di fronte all’oggetto sui cui lavora” (Berardinelli), enumera gli accumuli di tesori intellettuali e non fa mancare risate e invettive. Così si incontra Proust, “maniaco di mondanità e snobismo”, con la sua Recherche “ridotta al gadget della madeleine e travisata per semplificazione”, o la “fascinazione ingorda e parossistica per la bêtise”, cioè “per la stronzaggine umana” di Flaubert. Oppure la Dietrich (a fine carriera), quella “nonna espressionista che la sa fin troppo lunga”, che cantava con un’allure da Neue Sachlichkeit, o addirittura “un ventriloquo identico a Kierkegaard in un inquietante numero di paperini drogati di lsd”. Non manca la sferza su De Amicis, “che aveva capito bene come rendere commerciali i lubrichi istinti di chi vorrebbe trucidare o mutilare i piccini” (“altro che pubblicazioni elitarie che conducono alla Bastiglia e a Charenton, sono i canali della Scuola e dell’Opera che conducono al bestseller!”). E si racconta di un Adorno “consigliere segreto di Mann e Benjamin” e della presenza di Max Beerbohm, la cui Zuleika suona “come un Flaubert riscritto a quattro mani da Henry James e Beardsley”. La sequenza degli accadimenti e delle apparizioni in “Ritratti e immagini” è effettivamente un album teorico ed estetico; valga, allora, anche per Alberto Arbasino quanto lui stesso ha affermato per la poetica proustiana: la storia di una vita diventa una filosofia della composizione.
Ritratti e immagini
Alberto Arbasino
Adelphi, 353 pp., 23 euro