Il museo delle penultime cose

Flaminia Marinaro

di Massimiliano Boni, 66thand2nd, 373 pp., 18 euro

Il Museo della Shoah di Roma occupava la parte di Villa Torlonia che si allunga verso piazza Bologna. Era stato inaugurato circa dieci anni prima e ora a ripensarci, sembrava incredibile che fosse stato così difficile realizzarlo. Il viale era attraversato dalle immagini olografiche dei Giusti italiani, donne e uomini che erano riusciti a salvare gli ebrei dalla deportazione”. Il Museo della Shoah di Roma non esiste e il negazionismo non è un’invenzione di Primo Levi. La comunità ebraica di Roma è una delle più antiche d’Europa ma un memoriale finora le è stato negato. Il romanzo si ambienta nel 2030 e Pacifico Lattes è un giovane uomo di 35 anni, ebreo romano, archivista e direttore del Museo della Shoah di Roma.

 

E’ innovativa la narrazione di Massimiliano Boni, ebreo romano e consigliere costituzionale alla sua terza pubblicazione. Racconta l’Olocausto prendendo le distanze, guardandolo dall’alto, da lontano cercando di non colmare quel vuoto temporale, unico anestetico a un trauma intergenerazionale che sfida anche le leggi della genetica. “L’idea del libro nasce dalla necessità di parlare della Shoah senza rischiare di cadere all’indietro e venire risucchiato da un passato che non ho vissuto direttamente, così ho capovolto la prospettiva”, confida l’autore al Foglio. Al contrario, il libro pare evolvere in una sorta di autoanalisi dello scrittore fino alla consapevolezza che gli orrori patiti dai genitori vengono, giocoforza, ereditati dalle generazioni future. Pacifico Lattes ricostruisce minuziosamente la vita dei deportati, indaga sulla loro quotidianità e la ricompone in un collage di immagini didascalizzate con le quali restituisce loro un’identità, una storia e la vita fino all’attimo prima che venissero cancellati e inghiottiti dalla nube oscura del sacrificio.

 

Il romanzo corre su un doppio binario, istantanee di vita si sovrappongono, quelle della Roma degli anni Trenta e quelle della stessa Roma del nuovo millennio. Il quartiere storico del ghetto romano con le stesse botteghe e gli stessi vicoli testimoni muti di esperienze indicibili. Un velo di silenzio sulla politica di quei giorni, mentre è vivace il confronto elettorale per le presidenziali tra un Renzi con i capelli bianchi e l’avversario Cacciani che deluderà le aspettative del suo elettorato proprio nella difficoltà di impedire recrudescenze neonaziste che metteranno a rischio anche la vita del protagonista. L’apparente equilibrio di Pacifico Lattes viene sconvolto dalla scoperta di un sopravvissuto, un testimone quasi centenario ancora vivo ma chiuso in un silenzio indecifrabile.

 

Pacifico non potrà ignorare l’esistenza di Attilio Amati che lo risucchierà nel passato facendogli capire quanto la sua anima e il suo cervello siano prigionieri di lager che non ha mai vissuto. Il silenzio caparbio di Attilio è lo stesso silenzio di Pacifico che non varca il confine del dolore per non aprire le porte alla sofferenza lacerante che se pure danneggia il fisico non annienta l’anima.

 

Se la vendetta di Pacifico è ricordare i deportati e seppellire all’inferno i loro carnefici, alla fine la vita si schiera sempre con la vita ma non sono i sopravvissuti ad essere migliori, tutto è casuale, amava dire Art Spiegelman, ed è con questo spirito e con un ritmo incalzante e pieno di suspense e di tipici termini ebraici che l’autore ci consegna un romanzo bello e struggente e il monito che la potenza della parola e del ricordo è l’unica vera forza dell’umanità.

 

IL MUSEO DELLE PENULTIME COSE
Massimiliano Boni
66thand2nd, 373 pp., 18 euro

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