Tokyo Transit
di Fabrizio Patriarca, 66thand2nd, 308 pp., 18 euro
Ciò che resta del glorioso impero del Sol levante nelle immagini ipnotiche dell’ultimo romanzo di Fabrizio Patriarca è un cortocircuito di luci a led sparate senza pietà sui corpi asfittici dei protagonisti risucchiati violentemente da una dimensione oziosa, edonistica, delirante e onirica. Al contrario, la trama è asciutta, essenziale, quello che conta per l’autore è indagare la psicologia contorta di due giovani occidentali, un maltese senza grandi ambizioni e un italiano simbolo di una società molto borghese e capitalista, erede di una grande industria di macchinari web. Nel loro modo di essere mi pare di ritrovare Dino, proprio quel Dino che tra le pagine di Moravia si crogiolava in una noia esistenziale che lo spingeva in modo ossessivo alla ricerca di denaro e sesso. Il lettore si ritrova a muoversi per Tokyo e a scrutarne gli anfratti dei Love hotel o sex-hotel o dei Maid-café dove deliziose ragazzine attirano i clienti per la strada, delle piccole geishe senza ancora la dignità del volto colorato di bianco. “Roppongi”, il luogo dove “accade sempre qualcosa”, è il rifugio di Alberto e Thomas che per non lasciarsi centrifugare dalla moltitudine umana così anaffettiva e oscura si proteggono abbandonandosi nello stordimento della cocaina Thomas, e nelle carni molli della vecchia Motoko. “L’opzione geriatrica” come l’apostrofava distrattamente Alberto. Fondamentale il personaggio di Motoko che come una vestale vigila sui turbamenti del ragazzo sexual addicted, ostaggio di una città apparentemente indifferente che anziché traghettarlo, verso l’altrove lo inghiottisce nei suoi tentacoli in un finale comunque appagante di dimensione kafkiana che aveva creduto di aver compreso l’essenza del Giappone nel momento in cui aveva smesso di indagarlo perché “niente è più filosoficamente attiguo all’istinto suicida di una divinità superiore, niente ce ne racconta meglio la baldanza, quanto l’esistenza di questo popolo, pensiero nichilista nella mente di dio”. La narrativa è forte, a tratti fin troppo carica di svaghi letterari alternati a un linguaggio spregiudicato, esplicitamente erotico, nervoso e roboante. In questa topografia emotiva l’autore è un flusso inarrestabile di parole e la padronanza lessicale gli permette continue digressioni, deviazioni e interruzioni temporali. Non si resta impassibili di fronte a una descrittività tanto potente fatta di frastuoni e silenzi insieme, di una cultura che “nasce scintoista e muore buddista”. Il testo è innovativo e sorprendente lo stile sperimentale. Il linguaggio è inquieto ma ci regala il racconto di una città da una prospettiva tutta nuova, quella delle pulsioni più materiali dell’animo umano.
TOKYO TRANSIT
Fabrizio Patriarca
66thand2nd, 308 pp., 18 euro