Il fratello tedesco
di Chico Buarque, Feltrinelli, 240 pp., 18 euro
In alcune tappe del viaggio in Italia, Goethe è accompagnato da un capitano italiano. Vedendo lo scrittore in solitaria meditazione, il capitano esclama: “non deve fermarsi l’uomo in una sola cosa perché allora divien matto: bisogna aver mille cose, una confusione nella testa”. Queste parole fanno di lui, per Goethe, un “vero rappresentante di molti suoi compatrioti”. Queste stesse sono riprese, poi, da Ortega y Gasset per definire i pensatori mediterranei e latini. Dice per esempio di Vico: «non gli si può negare il genio ideologico; ma chi si addentri nella sua opera apprende da vicino la nozione di caos». Non scadendo in una retorica degli stereotipi, ci appropriamo della nozione di “confusione mediterranea”. Sarà una forzatura – eppure, “latina” è l’America del Sud – ma questo tipo di confusione positiva è utilissimo per parlare de Il fratello tedesco, del cantautore brasiliano Chico Buarque.
Il libro si apre con una prima “buona confusione”, che avvolge lettore e romanzo, e i rispettivi mondi. Trovando, nascosta in un’edizione de Il ramo d’oro, una lettera in tedesco indirizzata al padre, Buarque scopre di una liaison paterna con una donna tedesca, risalente alla Repubblica di Weimar. Dalla relazione il padre ha avuto un figlio: si tratta, appunto, del fratello tedesco del protagonista, il quale comincia così una ricerca fra foto, documenti, pedinamenti e viaggi. Una ricerca confusa, poiché quanto ci sia di vero, verosimile, o di completamente falso nella vicenda non è noto: dove sia la frontiera fra la finzione letteraria e la biografia è un dettaglio che il lettore prima non sa, poi dimentica, ormai coinvolto e complice. Ancora, all’interno stesso del racconto, richiede attenzione distinguere il reale dalla rêverie cui si abbandona spesso il protagonista, che fantastica sull’incontro con il fratello perduto, della vita che ha vissuto, ad ogni indizio che emerge.
La seconda meravigliosa confusione in cui ci fa perdere Buarque è dovuta allo stile narrativo. Tempo e spazio si lasciano modellare dalla generosa sensualità e dal ritmo serrato della prosa – lasciamo ad altri facili paragoni con le danze brasiliane. Ricorda lo stile con cui Pennac racconta le gesta di Malaussène, con la differenza che Buarque non gioca con le parole, né scherza con innovazioni lessicali e neologismi. Tuttavia, ciò non significa che il linguaggio scelto dal cantautore sia semplice, anzi. Il registro si ibrida, restituendo le diverse sfaccettature che caratterizzano il protagonista. Innanzitutto vi è una commistione di lingue: fanno capolino il tedesco, ovviamente, l’italiano – giocoforza lost in translation – e, a dosi minori, inglese e francese, a testimoniare l’esser figlio di una calorosa napoletana e di un intellettuale un po’ europeo, un po’ brasiliano. C’è poi un connubio di alto e basso: dall’ontologia allo spaccio di stupefacenti, da Gustav Mahler agli inseguimenti della polizia. Inevitabile per chi è cresciuto alternando ai furti d’auto quelli di libri dalla biblioteca paterna, dalle scaffalature onnipresenti e talmente estese da essere una componente strutturale della casa. Infine, compare il linguaggio del corpo e degli impulsi: la sinfonia di Buarque conosce le note, a volte morbose, della carne, sia nell’erotismo, sia nella violenta repressione di regime.
Sovrapponendo e intrecciando queste confusioni, Chico Buarque confeziona uno splendido romanzo, nel quale perdersi, come in una labirintica biblioteca. La grande ricchezza de Il fratello tedesco: come ogni buon libro è anche una biblioteca, un continuo rimando ad altre opere e ad altre vite.
IL FRATELLO TEDESCO
Chico Buarque
Feltrinelli, 240 pp., 18 euro