Frugalità
Emrys Westacott, Luiss University Press, 240 pp., 22 euro
Noi tutti, assidui frequentatori di social network, sappiamo cosa significhi avere a che fare con la ricchezza, quella un po’ osé, che ci intima di tacere di fronte allo spettacolo affascinante della sua potenza. Instagram, ad esempio, pullula dei cosiddetti Rich Kids, giovanissimi che si dedicano al lusso sfrenato e alla sua ostentazione. Ci siamo abituati ai vassoi galleggianti delle piscine di Gianluca Vacchi e agli aerei privati di Sonia Bruganelli, ma siamo sinceri: quanti di noi si sono indignati mentre osservavano tanta sbandierata ricchezza? Molti, a quanto ci dicono alcuni commenti alle foto dei suddetti personaggi. La domanda sorge spontanea: chi ama il lusso sta facendo qualcosa di sbagliato? L’eccesso è sinonimo di “peccato”? Ma soprattutto, perché la condotta di una vita semplice è così encomiabile, tanto da essere paragonata ad una certa idea di felicità?
Sono questi alcuni degli interrogativi che si pone Emrys Westacott nel suo saggio filosofico “Frugalità” (Luiss University Press), partendo da un quesito cruciale: cosa significa abbracciare uno stile di vita “semplice”? E quali sono i pro e i contro dello sperpero e della frugalità? L’intenzione – pienamente riuscita – è quella di passare in rassegna due millenni di storia alla ricerca di risposte, offrendo, in corso d’opera, numerosi altri spunti di riflessione.
Partiamo dal fatto, imprescindibile, che il termine “frugale” abbia numerosi sinonimi, da “semplice” ad “austero” a “spilorcio”, indice di una complessità che investe proprio il concetto di “vita semplice”. Semplicità rispetto a cosa? Occorre considerare tempo, luogo, cultura, epoca e bisogni primari per ragionare su quanto l’uomo abbia necessità o meno di certe condizioni per vivere in modo dignitoso. Tendenzialmente quando una persona pratica la frugalità o ha gusti semplici viene apprezzata, lo dicevano Socrate, Platone, Diogene, ma anche Benjamin Franklin, l’archetipo del self-made man che associamo all’idea di prudenza economica. Vivere in semplicità, in fondo, tiene alla larga dal rischio di corruzione, ci mette a disposizione una maggiore quantità di tempo libero (si ha meno bisogno di lavorare e di guadagnare), forgia un buon carattere che sarà sicuramente portato ad abbracciare la virtù, indi la felicità; si dà il caso che il buon Epicuro sostenesse che soddisfare i bisogni primari fosse condizione sufficiente per la felicità, tutto ciò che è desiderio ulteriore, nonché tentazione, provoca dolore e affanno. Giusto, ma chi stabilisce cos’è un “bisogno primario” per l’uomo? E non è forse vero che il desiderio insaziabile è ciò che ci spinge a metterci alla prova e a raggiungere forme più elevate di felicità? C’è anche da dire che chi sperpera in beni di lusso fa un’operazione economicamente fruttuosa, aumentando la domanda di beni e servizi e creando, quindi, posti di lavoro; spingiamoci oltre: non è forse vero che il concetto di lusso sia collegato anche a quello di cultura, e anzi, per certi versi la alimenti? Dovremmo ricordarci delle ore di fila che facciamo per ammirare la Cappella Sistina, la Reggia di Caserta o i Giardini di Versailles.
Se da una parte il capitalismo ringrazia, resta pur sempre il fatto che le tesi a sostegno della frugalità vanno per la maggiore. In teoria, perché all’atto pratico la tanto venerata “filosofia della semplicità” non resta che un buon proposito. “Perché coloro che predicano la frugalità e la semplicità non hanno avuto maggiore successo nel persuadere gli altri a vivere conformemente a quei valori?”, chiede Westacott. Lanciamo il dubbio in pasto agli hater di internet.
FRUGALITA'
Emrys Westacott
Luiss University Press, 240 pp., 22 euro