Il principe di Machiavelli
Di Gaetano Mosca, Edizioni Il Foglio, 104 pp., 12 euro
Nel 1927, “quattro secoli dopo la morte del suo autore”, Gaetano Mosca scrive un breve saggio, con il quale cerca di trarre un bilancio complessivo dell’influenza che Il Principe di Machiavelli ha esercitato sul pensiero politico moderno. Novanta anni più tardi, è il turno delle Edizioni Il Foglio, che ripubblicano le considerazioni di Mosca, accompagnate da un saggio introduttivo di Carlo Gambescia.
In passato, tutti hanno cercato in qualche modo di tirare Machiavelli dalla propria parte. Il Risorgimento ne ha visto un anticipatore del processo unitario; Croce vi ha trovato conferme alla sua idea di autonomia della politica dalla morale; Mussolini ha tentato di fascistizzarlo: “La parola Principe deve intendersi come Stato”, organizzatore e limitatore degli individui che, “sospinti dai loro egoismi, tendono a disobbedire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra”. Durante la Guerra fredda, gli ideologi occidentali vedono in Machiavelli un difensore della libertà, “un vizietto che i neoconservatori statunitensi non hanno perduto”, ironizza Gambescia. Qualcuno ha studiato il rapporto fra Machiavelli e la postmodernità, “così, tanto per non farci mancare niente, si avrà prima o poi persino un Machiavelli liquido”.
Invece, da parte di Mosca, la lettura di Machiavelli non è né particolarmente elogiativa, né negativa. Il grande politologo apprezza l’illustre antenato nella giusta misura – se così si può dire, in una simile circostanza.
Machiavelli non creò la scienza politica, poiché non ne possedeva gli strumenti, è l’osservazione cruciale di Mosca. Non poté neppure gettarne le fondamenta: non aveva sufficienti conoscenze storiche, né possibilità di indagine comparata sui sistemi politici. Le fonti di cui disponeva, alla sua epoca, erano troppo limitate, al punto da indurlo più volte in errore.
C’è tutto il rigore del metodo storico-sociologico, in questa impostazione moschiana, finalizzato alla ricerca di quelle “regolarità e costanti”, nel comportamento politico-organizzativo collettivo, che sono il nucleo della scienza politica moderna. La teoria di Mosca è fondata sullo studio del potere, sul senso della storia, su un solido realismo antropologico, lontano da qualsiasi modello costruttivista. La sua visione della società è fondata sul merito individuale, ciò che ne fa più un liberale che un democratico, nota ancora Gambescia.
Le critiche di Mosca a Machiavelli sono dunque precise e circostanziate: l’esercizio del potere non si limita all’uso di forza e inganno, ottenere il consenso può rivelarsi assai utile; la “difesa giuridica” del governo, cioè le leggi e gli ordinamenti, ne sono una componente essenziale; e anche la forza morale, infine, può giocare un ruolo tutt’altro che secondario e disprezzabile. Anche per queste ragioni, osserva Mosca, il giudizio di Machiavelli su Cesare Borgia fu completamente sbagliato, come i fatti successivi si sarebbero incaricati di dimostrare. Resta valida però l’idea di un trattato assolutamente “laico”, cioè non solo scevro da riferimenti ultraterreni, ma anche esclusivamente incentrato sulla politica intesa come arte di arrivare al potere e conservarlo.
“Non si diventa furbi leggendo un libro in cui sono esposti i vantaggi della furberia”, conclude Mosca; dunque, altrettanto, l’arte del potere “non si insegna e non si può insegnare in un libro: è un dono di natura che si perfeziona con la pratica del mondo e l’esperienza personale. Il Principe può riuscire una lettura interessante ma è assai difficile che possa servire alla formazione intellettuale e morale di un uomo politico”.
Gaetano Mosca
IL PRINCIPE DI MACHIAVELLI
Edizioni Il Foglio, 104 pp., 12 euro