Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati
Andreas Moster
Il Saggiatore, 200 pp., 21 euro
Un paesino di montagna tedesco, retto da un ordine millenario. L’unica fonte di ricchezza è rappresentata dall’estrazione di calcare da una cava, che sta andando male e presto si esaurirà. Gli uomini del paese detengono il controllo della forza e le madri della casa, mentre le ragazze devono obbedire, e accettare l’iniziazione all’età adulta scandita dai rituali del villaggio: ogni desiderio, come quello fisico per l’altro sesso, va normalizzato, istituzionalizzato. L’ordine è quello dei padri, e dei loro padri, così fino dall’inizio dei tempi. Fino a quando un intruso, lo straniero venuto a controllare la produttività della cava, entra nel villaggio e le leggi millenarie che lo regolano vacillano: “Un uomo viene da noi in paese a voltare le pietre e le teste delle ragazze”. Nell’incipit c’è già tutto: l’uomo fa involontariamente precipitare il corso egli eventi, sovvertendo ciò che era sempre stato. Le ragazze del villaggio sono attratte da lui per quello che rappresenta: la risposta al languore trattenuto delle loro pulsioni fisiche, la conferma che il mondo in cui sono vissute da quando sono nate non esaurisce la realtà, ed esiste un altrove dove fuggire. Per raggiungerlo basta seguire il desiderio, alzarsi e andare, “assecondando la forza di gravità”.
Ragazze che “non hanno niente da fare”, la cui “noia sta sospesa nell’aria pesante come un temporale”. C’è molto del Cosmo di Gombrowicz nell’opera prima del tedesco Andreas Moster: la noia da cui nasce tutto, l’attrazione fisica e lo sfrigolare del desiderio che passa quasi sempre dagli occhi e si fissa sui dettagli. “La bocca era calda e umida, un nido orlato di mucose. Il suo dito si posizionò sulla carne soffice del palato, e lui avvertì la prossimità dell’ugula, i tubicini retrostanti diretti in profondità… Un luogo che ronza, privo di gravità”. Ai nonsense del polacco, Moster preferisce un linguaggio metaforico che non sublima né esaspera la tragedia quotidiana, ma le dà forma: “La risata di mio padre ha diviso mia madre in due parti, e lui l’ha spinta in camera da letto senza prima riunirle. La mattina dopo l’incrinatura era ancora visibile. Io ho tentato di dire qualcosa a mia madre, ma lo smembramento del cervello fa sì che per lei le parole siano tutte uguali”. Quello di Moster è un tentativo di spostare i confini del romanzo un po’ più in là, in tempi in cui la letteratura è incancrenita su un realismo che le rende difficile competere con Netflix & co., che le loro specificità stilistiche le sanno invece usare al meglio. L’espressionismo della sua scrittura fa ben sperare nella vitalità della letteratura, quella capace di spingere la lingua là dove nessun’altra narrazione la può portare.
SIAMO VISSUTI QUI DAL GIORNO IN CUI SIAMO NATI
Andreas Moster
Il Saggiatore, 200 pp., 21 euro