Il grido

Andrea Zandomeneghi

di Luciano Funetta, Chiarelettere, 165 pp., 16 euro

Funetta è magro e ha un bel volto, lo potresti facilmente identificare con Raskol’nikov. C’ha la scrittura nel sangue e non quella del tipo italico, no: lui sarebbe stato uno di quei detective selvaggi che sarebbero potuti andare a infastidire e rincorrere sguaiati il “grande furfante poetico messicano Octavio Paz, l’incoronato d’alloro” – perché tutti sanno che Funetta è più bolañano di un Pelle Divina, di un Lalo Cura, di un Amalfitano, di una Carminiani, dei discepoli di Jim Morrison che danno consigli ai fanatici di Joyce.

 

Se però si escludono talune stereotipe trattazioni di similari settori tematico-immaginativi spiccatamente presenti in entrambi; è ovvio, certo, s’incontrano comunque, tra il romano e il cileno, altri punti di contatto. Ma mai significativi e questo non è un giudizio di valore, questo è come quella famosa questione che nelle fogne di New York vive un alligatore o che periodicamente gli animalisti “lanciano” vipere dagli elicotteri nella macchia mediterranea per ripopolamento: una leggenda metropolitana – e sulle leggende metropolitane bisogna soffermarsi, vanno decostruite, altrimenti intorbidiscono tutto e non si discerne più nulla. In verità Funetta – che di Bolaño è raffinato lettore, conoscitore e propalatore – della prosa di Bolaño non ha quasi nulla: non quel placido periodare fluviale che si apre a delta ramificandosi in mille rivoli a cui viene detto singolarmente “va e saggio poi torna, in una nuova labile forma” – quel fiume che s’imbizzarrisce afferrando, sradicando e trascinando i lacerti del mondo antropico con i suoi viticci e i suoi mulinelli, per poi mollarli esausti ed esauriti a valle, divelti – e che in seguito confluiscono pregni nel grande mare dell’affabulazione massimalista; né la tragedia; né l’accumulazione stratigrafica e storiografica manipolatorio-falsificatrice; né le capriole semantiche carpiate e non di rado erudite del cileno.

 

Sul fatto che Funetta sia weird o non weird – cosa profondamente indifferente, ma molto dibattuta sui social e i litblog – non apro bocca visto che già in tanti si sono espressi con la ferocia cieca propria di chi debba difendere una metafisica dogmatica delle categorie pure immutabili. Funetta però weird pare davvero non esserlo: esistono – ci racconta anche Vasta – i mitopoietici: Funetta è un abilissimo atmosferopoietico. Il punto è però che, raggiunta ottimamente la suggestione atmosferica, poi bisogna rientrare nella vicenda, una vicenda che non procedere per inerzia col volano. C’è sì tanta struttura, ma questa va dinamizzata e articolata, altrimenti la suggestione atmosferica rimane orba e fine a se stessa.

 

Si prenda l’incipit di Dalle rovine: il “noi” è inquietante, quella prima persona plurale, grandiosa, è una trovata da consumato prestigiatore ancor fresco nella sua robusta inventiva – in Funetta l’incipit è sempre l’avatara angelico e la chiave di volta anticipata del filone suggestivo che verrà poi raccontato e costruito mattoncino dopo mattoncino. Vediamo però l’incipit de Il Grido: in un solo periodo riesce a piazzarci: “buio, lugubre notte, coda, strisciare, inspirare, espiare”. Altro che una manifestazione d’intenti! L’atmosfera e la suggestione non sono ingaggiate ma direttamente dichiarate e ignude per giunta. Funetta è bravo, molto bravo, ma non abbastanza per permettersi di fare il lezioso o di trascurare al contrario la costante ricerca lessicale. E’ professionale, colto e fluido ma non riesce ancora a manipolare il discorso come i grandi maestri della parola, né come i sopraffini cesellatori dei costrutti.

 

Il grido

Luciano Funetta

Chiarelettere, 165 pp., 16 euro

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