Il marchio ribelle
Nicolai Lilin, Einaudi, 192 pp., 18,50 euro
E’ opportuno armarsi di non comune passione per l’antropologia criminale prima di affrontare Il marchio ribelle di Nicolai Lilin. Forse “non comune” è una qualifica impropria: il fiorire di racconti, su carta e in video, e dei vari Gomorra, Suburra e Romanzo criminale ha senz’altro contribuito a creare in Italia le condizioni per un mercato delle efferatezze. In questo scenario, il lettore con simili inclinazioni può, dunque, affidarsi a Lilin, che torna, dopo Educazione siberiana, a fare da Cicerone a tutti i visitatori del mondo della criminalità russa. Più che Cicerone, però, Lilin è un Lombroso. Bisogna, dunque, immaginarsi il marchio come un’etologia, un’interpretazione quasi fisica e poco culturale dell’antropologia criminale. Il libro è una raccolta e sistematizzazione di dati, che non si realizza, però, in mappature del cranio, ma della pelle. O meglio: di tatuaggi. Infatti, l’autore racconta la curiosità, che ne ha incessantemente accompagnato la crescita, verso queste raffigurazioni, circonfuse di una speciale sacralità. Molto presto nel romanzo, il narratore impara che dei tatuaggi non si può parlare, e, quindi, prende a osservarli e a riprodurli con sempre più cura: il risultato è il bestiario di pipistrelli e teschi, cupole a cipolla e clessidre, che accompagnano il testo. Come crani di Lombroso, appunto, le illustrazioni sono (mala)vita quantificata, misurata. L’occhio di Lilin prima si rivolge alle “unità minime” dei complessi tatuaggi, e poi, facendosi lo sguardo strutturalista, inizia a descrivere il ripetersi e l’incontrarsi di queste forme elementari nei magnifici arabeschi, campeggianti affianco a sfregi e cicatrici sulle braccia e i toraci dei gangster slavi. In queste strutture il narratore riesce a recuperare la biografia dei numerosi personaggi che affollano il romanzo. Tale andamento strutturalista costituisce l’ossatura del libro, che tuttavia si allontana di poco, e rimane scarno. Pur lasciando intuire, con discreta eleganza, i grandi drammi storici che sono lo sfondo delle esistenze rinchiuse nella desolante periferia dell’impero sovietico al tramonto, il romanzo si limita al rincorrersi di aneddoti ed episodi, attraverso i quali i tatuaggi vengono riconosciuti, dissezionati, analizzati e infine ricomposti. Il racconto, fatto di frasi brevi e incisive, non si preoccupa di andare molto più in là, o più in profondità, delle impressioni del ragazzo narrante. La volontà che emerge dalla lettura è quella che il testo sia in fin dei conti il tentativo di arricchire le didascalie alle illustrazioni, senza che la parola prenda troppo il sopravvento sull’immagine: il tatuaggio, marchio ribelle, rivendica per sé il primato narrativo.
IL MARCHIO RIBELLE
Nicolai Lilin,
Einaudi, 192 pp., 18,50 euro