Il mestiere del potere
Alberto Cattaneo
Laterza, 189 pp., 16 euro
Nel lontano 1954, Carl Schmitt concepisce il Dialogo sul potere e il Dialogo sul nuovo spazio come testi da destinare inizialmente alla radio e, solo dopo, alla pubblicazione. A distanza di decenni, sono ancora tra le letture imprescindibili per chi vuole comprendere le dinamiche del potere e le trasformazioni dello spazio planetario. Recentemente, Alberto Cattaneo si è ispirato proprio a diversi passaggi del Dialogo sul potere di Schmitt per presentare una riflessione sull’influenza degli interessi nel processo decisionale nel suo Il mestiere del potere. Dal taccuino di un lobbista (Laterza). L’intento è quello di proporre un quadro non banale su uno dei temi più discussi (e più equivocati) del dibattito pubblico: la relazione tra lobby e democrazia. Cattaneo – fondatore con Paolo Zanetto di una delle principali società di political intelligence, lobbying e public affairs – è una delle parti in causa, ma il suo libro non è una difesa acritica dell’attività dei lobbisti. Lo sforzo principale della sua analisi è quello di marcare l’inevitabilità della presenza di interessi organizzati all’interno della democrazia perché questa è intrinsecamente “dialettica”, laddove “il compito della politica è scegliere”, mentre quello del potere è “realizzare”. Al suo interno, il rappresentante di interessi non ha un ruolo politico diretto, ma certamente può essere considerato un uomo di potere poiché influenza le scelte politiche e opera sui loro effetti. Ha dunque una funzione indiretta, non meno importante di quella svolta dai rappresentanti eletti dai cittadini. Infatti, per Cattaneo, è intrinseca alle dinamiche del potere una dialettica permanente tra le azioni dirette e le azioni indirette e ricava questa sua convinzione proprio dalle pagine di Schmitt che, nel Dialogo sul potere, scrive: “chi è chiamato a riferire di fronte al potente, o gli fornisce informazioni, è già partecipe del potere […]. Ogni potere diretto è quindi immediatamente sottoposto a influssi indiretti”. Ma dove si esercita questa azione indiretta? È ancora il dialogo del giurista tedesco a fornire una risposta quando Schmitt nota come davanti a ogni “camera del potere” si formi conseguentemente “un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima”. Nell’immaginario collettivo, l’anticamera del potere è concepita come un ambiente opaco, dove si consumerebbero relazioni e accordi indicibili e, forse, persino illegali. E’ certamente lo spazio dove si incontrano gli “indiretti” e quindi dove nascono numerose relazioni, ma è anche l’arena dove il processo legislativo prende forma e, appunto, viene influenzato: è il luogo dove si esercita il potere e dove quindi sono indispensabili margini di segretezza. Su questo punto, Cattaneo sostiene di non essere un fiancheggiatore della trasparenza tout-court (soprattutto quando viene scambiata per pura e semplice pubblicità) perché se tutto si trasformasse in una sfera di vetro dove tutti vedono tutti, non ci sarebbe più la politica, dal momento che verrebbe meno la dialettica tra potere diretto e indiretto. I tentativi di regolamentare la lobby sono puntualmente falliti proprio perché, se da un lato si vuole assecondare il “mito” della massima trasparenza, dall’altro, non si modificano i meccanismi attraverso i quali la democrazia produce le leggi che, invece, prendono forma nelle anticamere del potere (tra i suoi segreti). Cattaneo propone allora di rendere obbligatoria la verifica del raggiungimento degli obiettivi di una legge, di legittimare il dialogo tra tutti gli interessi coinvolti e di abolire la pratica degli emendamenti per dare più forza ai contenuti e distinguere i professionisti della lobby dai presunti tali.