Il luogo in cui eros riesce spesso a far tacere thanatos è in Veneto, a “Belluno”
L’ultimo divertente libro di Patrizia Valduga, nostra signora della quartina
“Capetti del Pd, vi maledico!”. È molto divertente l’ultimo libro di Patrizia Valduga. Sono poesie finalmente collocate in uno spazio-tempo preciso, il nostro, e non nelle cripte remote dalle cui fessure fuoriuscirono come ectoplasmi i versi sublimi di “Medicamenta” e “Donna di dolori”… Lo spazio lo annuncia già il titolo, “Belluno”, e il tempo è adesso ovvero questi ultimi mesi, al limite questi ultimissimi anni. Pertanto il lettore che si interessa di politica facilmente darà un nome ai capetti maledetti. E magari saprà comprendere la ragione di tanta ira. Io, che le vicende interne ai partiti non conosco (preferisco la pittura, la poesia e le polpette, scusate), mi godo lo spettacolo dal palco.
In “Belluno” c’è appunto Belluno, c’è il corpo, inteso come malattia e come godimento, c’è il lamento, c’è un bellissimo cappello-gorgiera in copertina (foto di Francesco Maria Colombo, bravo). “Ogni estate a Belluno / per almeno due mesi. / Ma non frega a nessuno… / né a me né ai bellunesi”. Adesso gli abitanti del capoluogo più settentrionale del Veneto potranno rimediare e onorare degnamente la poetessa che li ha fatti entrare nella letteratura con la L maiuscola. Non era mai accaduto, nemmeno l’indigeno Buzzati intitolò un libro a Belluno, salvo poi lamentarsi che molti italiani ignorano, della città, se non l’esistenza la collocazione: Veneto? Friuli? Trentino? Vattelapesca.
Ovviamente qualche citazione frugando nell’archivio ve la tiro fuori. Pasolini ricorda che a Belluno visse i primi turbamenti omosessuali, guardando i ragazzi giocare nei giardini davanti alla casa dove abitò per breve tempo, al seguito del padre militare. Belluno è citata più volte, con inevitabile tono satirico, nei sonetti del Belli, e non c’è niente di strano sapendo che sono stati composti durante il Pontificato del bellunese Gregorio XVI. La sapientissima Valduga lo rievoca, gli rifà il verso, non in romanesco ma in italo-veneto, nella quartina di pagina 11. Nel libro riecheggiano anche Pound (“Io mi edifico sulle mie rovine”) e Eliot (“No, non con uno schianto, con un raglio / finirà il mondo… Oppure con un ronfo.”). E ancor più il conterraneo (nativo pure lui della Marca) Lorenzo Da Ponte: “Andiam, andiam, mio bene, / a ristorar le pene... / mentre corre la luna / sopra la Valbelluna”. Donna Patrizia stavolta è un po’ Donna Giovanna, evoca l’eccellente marzemino e dei cosiddetti fidanzati esplicita il rapido consumo (“Quaranta giorni al più sono durati”) e quindi li chiamerei amanti se non prede, povere vittime del fascino dell’ultima diva della poesia italiana.
Fascino malato in molti sensi, compreso quello stretto: a pagina 42 dichiara di avere il morbo di Crohn, ed è un problema trovare la cura ma non la rima, per chi maneggia la lingua come lei. Scappato o scacciato l’ultimo maschio, di soluzioni ne rimangono poche: “E per venire ho solo la mia mano”. “Belluno” non è totalmente erotico come il capolavoro del ’97, “Cento quartine e altre storie d’amore”, ma pure qui eros riesce spesso a far tacere thanatos, sempre presente nell’opera valdughiana. “Almeno le piace o le piaceva l’uccello. Non il cigno”. Sono parole di un’amica lettrice che trova la differenza fra le due dive inquietanti della letteratura italiana tornate in libreria in contemporanea, la Valduga e Isabella Santacroce che in copertina ha messo un cigno, nel romanzo ha scritto dell’amore fra la protagonista e un cigno e su internet non fa che piangere la morte di uno stramaledetto cigno (l’amica lettrice di fronte a tante svenevolezze ride, io rimpiango i Tudor che i cigni se li facevano servire arrosto). Donna Patrizia è molto più pratica: “Amo chi è come appare, / chi sa cosa sa fare”. Lei che con “Belluno” si conferma artefice perfetta, regina della neo-metrica, Nostra Signora della Quartina.
Universalismo individualistico