Donne povere surrogate dei super ricchi. Un romanzo che è già realtà
Non c'è nulla di inverosimile in “The Farm”, la fattoria dei bambini di Joanne Ramos
Roma. Golden Oaks è un “ritiro gestazionale” nello stato di New York per ultraricchi dell’upper class americana, bianca e privilegiata. Dopo un rigoroso processo di selezione, le donne si trasferiscono nel resort per la durata della gravidanza. Sono sorvegliate e coccolate notte e giorno, per garantire che i (molto costosi) bambini che stanno incubando raggiungano tutto il loro potenziale. In cambio del servizio, le “Ospiti” ricevono uno stipendio e, a consegna avvenuta, anche un bonus. Sono le donne povere che portano avanti le gravidanze surrogate dei ceti abbienti. Come Jane, filippina, che viveva in un dormitorio angusto nel Queens con altre filippine, che lavorano sodo per inviare il salario a casa. Poi l’occasione del Golden Oaks: “Il lavoro è facile e il denaro è tanto!”. Jane non era pronta per il pigiama di cashmere e il cibo biologico preparato dal suo chef privato.
L’idea del ritiro gestazionale è venuta alla hedge funder Mae. Le “ospiti” devono rinunciare ai cellulari e alle visite di amici o familiari. Un media center offre contatti con il mondo esterno, ma tutte le chiamate, email e navigazione web sono monitorate. Le ospiti indossano braccialetti che seguono ogni loro salto e battito cardiaco e non possono sapere nulla sui loro clienti-datori di lavoro. Tutto in nome della “sicurezza fetale”. “Un’ospite stabile e felice produce un bambino sano, che produce un cliente soddisfatto”, è il motto di Mae. L’ammutinamento delle ospiti ovviamente mette in crisi il paradiso eugenetico.
È la trama di The Farm, nuovo romanzo di Joanne Ramos per Random House. Ma non c’è niente di inverosimile in Golden Oaks. Tutto sta già avvenendo. Altro che distopia e fiction. Sta diventando realtà. Alcuni giorni fa, l’India ha sospeso i visti per i turisti stranieri che si recano nel paese per commissionare una surrogata. Il Wall Street Journal lo ha chiamato “assemblaggio del bambino globale”. O come scrive la femminista lesbica Julie Bindel, “è l’inquietante e brutale sfruttamento di donne che provengono dal mondo in via di sviluppo nell’affitto dei loro uteri per soddisfare i desideri egoistici degli occidentali ricchi”.
Funziona così. Si prende un ovocita di una bella ragazza dell’Europa orientale e lo si insemina con lo sperma di un ricco occidentale. Una volta creati, gli embrioni vengono congelati a meno 196 gradi, messi in contenitori di azoto liquido simili a piccoli bidoni e spediti in città come Delhi e Bombay, dove vengono impiantati nella pancia delle donne asiatiche. Se ci sono troppi embrioni, questi vengono selezionati. Eufemisticamente, gli indiani chiamano la pratica “riduzione”. In India, ci sono anche appositi “dormitori” per le madri surrogate al servizio della fiorente industria del turismo medico. I ricchi clienti occidentali sono attratti dal fatto che in India le donne non bevono o fumano. Soltanto una manciata di paesi, a parte gli Stati Uniti, consente la surrogata per motivi economici. Paesi quasi sempre poveri, come India, Messico, Thailandia. Gruppi per i diritti delle donne denunciano che le cliniche della fertilità non sono altro che “fabbriche di bebè per i ricchi”. The Farm. Le donne dell’industria della surrogata hanno anche un nome: “replicanti”. Fanno anche più gravidanze dietro compenso.
La scrittrice inglese pluripremiata Kishwar Desai ha denunciato sul Guardian che “ci sono ospedali in cui le donne sono tenute per nove mesi, facendo nascere il figlio di qualcuno per due o tremila sterline. È puro sfruttamento”. The Farm. “C’è una domanda globale”, scrive France Winddance Twine, che ha scritto “Outsourcing the Womb”. “Più di 160 milioni di cittadini europei vogliono questi servizi”. Sta andando molto l’Ucraina, dove la donazione di ovuli è molto comune tra le donne povere. Orrore degno di un romanzo huxleyano. Osceno risvolto del transumanesimo di un occidente alla frutta.