Mattoni da leggere
I romanzi voluminosi vanno di moda. E allora ecco “La straniera”, dal ritmo incalzante, tra favole e confessioni
Le regole d’ingaggio dicono “pagina 69”, l’ordine alfabetico dice Claudia Durastanti con “La straniera” (La nave di Teseo). La prova del peso è dalla parte del lettore. Provate voi a leggere certi mattoni che adesso van di moda, peraltro spesso scritti da gente che interrogata sul nostro mondo internettiano celebra la potenza dei tweet e si racconta su Instagram, dove un’immagine vale più di mille parole (il predicare bene e razzolare male ha raggiunto vertici inimmaginabili). 285 pagine ben dispongono.
Pagina 69 apre la sezione Viaggi, le altre sono Famiglia, Salute, Lavoro & Denaro, Amore, Di che segno sei, più da settimanale (non faremmo mai torto alla scrittrice aggiungendo “femminile”) che da romanzo. C’è solo una citazione, dalla scrittrice di fantascienza Ursula Le Guin (per capirci, non per sminuire: dopo Philip K. Dick e Theodore Sturgeon, soltanto Ian McEwan usa il genere come un insulto: “‘Machine Like Me’ parla di intelligenza artificiale, ma siccome l’ho scritto io è di serie A”). Leggiamo: “Ma un conto è leggere di draghi, un altro è incontrarli”.
Passiamo a pagina 99, suggerita per il carotaggio dal romanziere Ford Madox Ford (l’altro numero l’abbiamo rubato al sociologo Marshall McLuhan, qui non si inventa niente). Leggiamo: “Mio zio Arturo era quello che voleva fare i soldi, zio Paul quello che li avrebbe fatti”. Romanzo famigliare, si indovina, ma vivaddio si parla di soldi, e anche questo ben dispone. Subito dopo, una storia di candidati che non si presentano a un colloquio da Goldman Sachs, e zio Paul che si presenta negli uffici della ditta, convincendo l’ufficio del personale a dargli una chance. Assunto. Ne discende una villetta nel New Jersey (era quando alle mogli degli impiegati si regalavano bracciali Tiffany), la piscina piena di giocattoli gonfiabili, padri affettuosi che “toccavano le figlie come mio padre non toccava me”.
Non solo soldi. Ritmo veloce e variato, in una pagina si passa da una storia che potrebbe sembrare una favola – o una leggenda metropolitana – a una confessione dolorosa. Sarà pure autofiction, parola che ormai fa venire l’orticaria tanti sono i delitti commessi in suo nome, ma si fa leggere. Non è vietato parlare di sé, solo che bisognerebbe avere qualcosa da raccontare. E che nessuno tiri in ballo Philip Roth, che sulle sue pagine si spaccava la schiena: quel che sembra vita vissuta è duro lavoro. Il resto sono chiacchiere.
Andiamo a pagina 169, per una controprova. Sparisce New York, ora siamo a Londra. La Oyster Card per la metropolitana e King’s Cross non lasciano dubbi. Ma non si tratta della stazione, si parla del dormitorio poco lontano. E di una donna che chiede l’elemosina vestita come se fosse appena uscita dall’ufficio: “Pantaloni neri leggermente svasati in fondo, ballerine di pelle, camicia bianca” (“pantaloni neri” bastava, non è che bisogna descrivere tutto, solo quel che importa, è la differenza tra i libri e la vita, il resto non serve alla letteratura ma all’identikit). La storia però è interessante: l’abbigliamento formale ben dispone i passanti, che scuciono più volentieri la sterlina richiesta (il dormitorio è a pagamento).
Il controcanto personale – “Appena sono arrivata a Londra andavo alle feste e a ballare circondata da gente vestita da profugo della resistenza polacca” – rende bene l’idea. A pagina 269, Dostoevskij con “I demoni” e Philip Roth con “La mia vita di uomo” fanno guadagnare il punto che spetta alle scrittrici che non leggono solo libri scritti da donne.