Mentimi ancora, nonna
E’ impossibile salvarsi dalle bugie di una vecchia magica. Per fortuna Errico Buonanno sa raccontarle
Molti anni fa avevo un piano: essere una persona felicemente qualunque. L’uomo con cui ero fidanzata lo era, felicemente qualunque, e anche molto alto, e gentile. Quando lo presentai a mia nonna, molto alta però nient’affatto gentile, lei per prima cosa gli offrì caramelle Rossana e per seconda gli raccontò tutti i dettagli della sua prima notte di sesso con suo marito, mio nonno, che l’aveva sposata pochi mesi dopo essere rimasto vedovo e inconsolabile (ma certo, sì). Gli disse che era stato così bello che le era venuta la febbre e non aveva potuto camminare per giorni. Fu orrendamente imbarazzante, e lui rise con quella ruga sulla guancia sinistra che viene a chi fa la scelta giusta e non quella migliore. Una volta per poco non mi convinse a denunciare gli operai, tutti più o meno trentenni, che raccoglievano le olive nella campagna di mio padre, suo figlio, per corteggiamento indesiderato e insistente della sua persona, all’epoca ottantenne. Ebbi l’accortezza di verificare e scoprii che quelle molestie non erano che saluti.
Mia nonna non mentiva con dolo, i veri bugiardi non lo fanno mai. Lei aumentava la realtà senz’accorgersene. Quando le davo torto mi diceva: sei brutta!
Ho sempre creduto, con qualche forzatura della volontà, d’aver fallito il mio piano perché penso troppo, e sono della vergine, e mio padre è avvocato e socialista e mia madre è femminista e di destra, e le mie amiche sono possedute, e i miei amici sono gente che finisce male. Invece è colpa di mia nonna e, più precisamente, di quello che ha comportato e comporta ancora essere stata sua nipote. Siccome sono infelicemente qualunque e alla maggior parte delle cose, specie quelle che mi riguardano, arrivo grazie ai libri, per capire questo fatto fondamentale mi sono servite, dalla prima all’ultima, le 256 pagine del nuovo bellissimo romanzo di Errico Buonanno, “Teresa sulla luna”. Tutte le famiglie meriterebbero di essere raccontate in un romanzo, ma non tutte le famiglie sono un romanzo, e cioè una correzione della realtà, un tentativo di adornarla, aumentarla, usarla come scudo contro l’ovvietà e quella gigantesca, impoetica delusione che è la realtà. Questo ha fatto, Teresa, della sua vita e della sua famiglia: un romanzo. Non essendo lei scrittrice, a scriverlo ci ha dovuto pensare suo nipote Errico. “Voglio la noia!”, pensava lui, bambino, quando lei, sciantosa e teatrale e drammatica, andava a prenderlo a scuola all’improvviso urlando “giovane!” davanti a tutti, lo portava in gita in certi campi pieni di fango inventandosi che erano necropoli etrusche, gli raccontava che Amedeo Nazzari ed Enrico Fermi le avevano fatto una corte spietata. Lei così insistente nel volersi distinguere e lui, invece, così convinto di voler essere come gli altri, “felicemente qualunque”. Lei così avventurosa e lui così terrorizzato. Lei così poetica e lui così ordinario. Che fatica. Mai un momento di quiete, di normalità, di misura: pioveva e lei diceva che diluviava, faceva freddo e lei diceva che si gelava, il tempo passava e lei diceva “ora muoio”. Sei aggettivi ogni due parole. Ventimila leggende sotto la storia.
La vita di Teresa è durata moltissimo: novant’anni di cinema a orario continuato, sin dall’inizio. “Nacqui nella straordinaria circostanza della mia bellezza, il dottore rimase traumatizzato e tutta la città venne a vedermi”. Quando Teresa è morta, suo nipote Errico che l’aveva tanto odiata ha capito d’essere uguale a lei e d’essere diventato scrittore per colpa sua, per tutte quelle bugie dette senza dolo, e che non erano nient’altro che storie, modi in cui si evitava d’ammettere d’aver fallito, di essere come gli altri o forse anche peggiori. “Le storie servivano a giurarti che tu venivi da qualcuno e, mentre ascoltavi questa epopea, questa narrazione continua, ti dicevi che forse avevi una storia anche tu”. In famiglia non ci si passa il talento, però ci si spinge verso le cose. Basta avere una nonna che racconta d’essere stata sulla luna per aver voglia di diventare un astronauta, e farcela, anche se per molto tempo s’è sognato di fare i geometri. Se serva leggere, per scrivere, non lo so. So di certo che serve incontrare almeno una grandiosa mitomane, una col coraggio dell’inverosimiglianza, la fiducia nell’irrealtà, l’amore per la poesia, l’incapacità cronica d’ammettere che il verde è verde e che nella propria vita non è successo niente, se non quello che ci si è voluti raccontare. Di certo, se s’incontra una Teresa che sulla luna non c’è mai stata e però sa dirla molto bene, non ci si salva dalla sua luce e dalla poesia che ispira.