Dietro le sbarre
Ogni volta che lo arrestavano spaccavo qualcosa in casa. Era uno sconosciuto, ma per me era dio
Quando sono nato mio padre era in carcere, quando è nata mia sorella era in carcere, e quando è nato mio fratello, otto anni dopo, mio padre era ancora in carcere. Mio padre era sempre in carcere e quando non era in carcere era latitante e, quando non era latitante, era con qualcuna delle sue femmine, e quando non era con queste era con i suoi compari. Insomma, mio padre lo si vedeva poco a casa e solo perché la legge gli imponeva di rientrare ogni sera (un’imposizione che lui mal gradiva, pertanto, il più delle volte si dileguava).
Era poco presente nelle nostre vite e non ho molti ricordi di lui, quelli che ho non sono belli e qualcuno, raro, riconduce anch’esso a un senso di tristezza e di delusione.
Un giorno che mi trovavo nella piccola piazza del paese, lo vidi spuntare a bordo di una motoretta. Lo guardai con aria implorante, credo, visto che dopo avermi superato si fermò e con un cenno della testa mi invitò a montare in sella. Feci uno scatto, con il cuore gonfio di gioia gli allacciai le braccia intorno ai fianchi e mi strinsi a lui. Non potevo credere che fosse vero! Infatti, un centinaio di metri più in là, mio padre si fermò di nuovo, si girò verso di me e mi disse: “Scendi”. Solo questo. Sperai che ci ripensasse e che tornasse indietro, ma non lo fece, né allora né mai. Quel papà era inarrivabile. Eppure, era un dio, per me. Per questo ogni volta che lo arrestavano spaccavo qualcosa in casa, una porta, un armadio, un tavolo, intanto spaccavo anche le nocche delle mie mani. E poi piangevo. Piangevo e odiavo ferocemente quegli sbirri che lo avevano arrestato, anche se quando era libero lo vedevo meno di quando si trovava in carcere. Ho visitato le carceri di mezza Italia per andare a trovarlo. Più tardi ne avrei conosciute e ancora ne sto conoscendo altre, perché a mia volta detenuto. I miei primi ricordi sono legati al carcere di Messina. Mia madre e io, sempre insieme. Il tragitto sul treno fino a Messina, poi un altro autobus e ancora un pezzo di strada a piedi, spediti verso il nostro uomo. L’attesa nella sala d’ingresso del carcere era noiosa, a volte esasperante, dipendeva dal mio stato d’animo e dalla presenza o meno di altri bambini. E poi tutti quegli sbirri, che detestavo… il loro pronunciare i nostri nomi quasi gridando, le loro chiavi che sbattevano di continuo aprendo e chiudendo porte; i loro imperativi mentre attraversavamo i corridoi e i cancelli che ci portavano alla sala colloquio, uno stanzone diviso a metà da una lastra di marmo, che quando mi ci sedevo sopra, mi congelava il sedere. All’interno solo degli sgabelli, null’altro. Con mamma prendevamo sempre posto all’angolo della sala. Immagino che volesse proteggere in qualche modo quel nostro momento d’intimità familiare. Tutti rimanevano in silenzio sino all’arrivo dei nostri familiari detenuti. Allora, la sala diventava un vociare confuso e incomprensibile. Mio padre arrivava sempre per ultimo, pareva lo facesse a posta a farmi aspettare più di tutti. A me che non vedevo l’ora di vederlo. Ciononostante, non ricordo un suo abbraccio. Un abbraccio vero voglio dire, solo quelli formali, con la stretta di mano e i baci sulle guance, prima di sedersi, l’uno di fronte all’altro, divisi da quel bancone di marmo. (…) Mio padre. Quest’uomo parlava con gli occhi, parlava a tutti con quegli occhi penetranti e freddi, anche con me. Bastava un’occhiata per capire se dovevamo parlare o stare zitti, se muoverci o stare fermi. Io cercavo in questo, come in tutto, di emularlo, lo facevo con i miei compagni di gioco, poi con quelli di strada e più tardi con quelli di malavita. Volevo però, più di tutto, il suo rispetto. Ma da lui sembrava non fosse possibile avere nulla, neanche questo. Era talmente irrigidito e imprigionato dentro quella sua figura di malavitoso tutto d’un pezzo, che non poteva permettersi alcuna attenzione per gli altri, neppure per i figli. (…) Una volta, mio padre, dopo avere sorbito il caffè assieme a due malavitosi, mi posò una mano sulla spalla, tenendomi seduto sulla poltrona al suo fianco. A me diceva, senza dire una sola parola, che dovevo imparare ad ascoltare e a capire restando in silenzio; a quegli altri, di guardare bene che aveva un figlio e che questo stava crescendo. In quel frattempo Mimì, un giovane disadattato della mia contrada, e io, ci accorgevamo l’uno dell’altro. Due solitudini che s’incontravano: lui ventenne ed eroinomane, io dodicenne e figlio di un malavitoso, ci saremmo compensati di quell’affetto che ci mancava, restando amici fino alla morte. Io sarei stato carcerato a vita, lui assassinato, per vendetta contro di me, due anni dopo il mio arresto. La verità è che avevamo poche possibilità di essere altro da ciò che eravamo, di finire diversamente: era scritto nella storia del nostro ambiente sociale.
Estratto da “Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri” (Libreria Editrice Vaticana, 174 pp., 10 euro)