L'estate d'inverno
La storia di un giovane uomo, e quella di un giovane sogno. Fabio Genovesi, il passato e noi
Dicono che chi scappa sia un codardo, che i pazzi non facciano sogni, che la vita di un gatto corrisponda a circa quindici anni umani, che se la sera c’è il cielo rosso “buon tempo si spera”, che i maschi siano in fissa solo per tette e culi, che bisogna aspettare tre ore prima di fare il bagno al mare dopo i pasti e che Babbo Natale non esista: ma chi ha deciso tutto questo? Chi ha preferito considerare quei luoghi comuni delle leggi invece che dei confini da spostare per andare oltre, perché è bellissimo stare dove non si può stare così come fare quello che si vuole davvero fare.
Uno come Fabio, il ventiquattrenne protagonista di questo nuovo romanzo di Fabio Genovesi, ha imparato sin da piccolo che i confini “sono dei limiti inventati che ci strizzano e soffocano l’orizzonte davanti e dietro di noi”. Quelli personali, poi, sono i più rigidi e tremendi perché separano il possibile dall’impossibile, ma in ogni caso, se si vuole, “si possono spostare più in là”. Glielo hanno insegnato i suoi genitori nel 1982, quando aveva otto anni: era giugno, la scuola finiva e iniziava l’estate, già si immaginava con i suoi amici tra i campi o in spiaggia, ma una caduta da un albero di ciliegio rovinò tutto.
“Addio ciliegie, addio estate”, e per lui solo un gesso dove nessuno degli amichetti firmava, perché troppo presi da altro. Ma i suoi genitori gli scrissero: “Non piangere Fabio, non perdi l’estate, l’estate aspetta a te”. Del significato esatto di quella frase si rese conto pochi mesi dopo, a dicembre di quello stesso anno quando quei due genitori “strani e geniali”, sempre capaci di inventarsi modi “per aggirare le amarezze e provare a stare bene”, gli aprirono la mente. Al suo ritorno da scuola, con il gelo fuori, gli fecero trovare dentro casa un’atmosfera tropicale grazie ai termosifoni a trenta gradi e a una stufetta in salotto, luci alte e loro due in costume. Sbalordito, ci si ritrovò in un attimo con un cocomero in mano; poi, nella vasca da bagno con mamma e papà cercando di nuotare nonostante il poco spazio disponibile fino al suonare del campanello che annunciò l’arrivo dello zio Ettore, a petto nudo anche lui, che entrando gridò: “Cocco! Cocco bello!”. A quel punto l’estate arrivò davvero e il piccolo Fabio ne ebbe conferma quando la madre gli disse che il giorno dopo non sarebbe andato a scuola, perché d’estate ci sono le vacanze: si abbracciarono così forte da far fermare il mondo e con esso il tempo. In memoria di quella giornata favolosa, Fabio scrisse nel tema che quella era stata la sua estate preferita, infischiandosene della maestra che diceva che non era possibile che l’estate arrivasse a dicembre. Era la verità, e andò bene così. Chi non vorrebbe genitori come quelli? Questo è il migliore romanzo di Genovesi, che si è fatto conoscere e apprezzare con il saggio cult Morte dei Marmi (Laterza), con Esche vive, Il mare dove non si tocca e Chi manda le onde con cui ha vinto il Premio Strega Giovani nel 2015 (tutti Mondadori). Genovesi è nato a Forte dei Marmi, e dove non c’è il mare gli sembra un errore. I genitori lo hanno sempre aiutato e sostenuto, proprio come quelli di Marco Pantani – altro protagonista di questo libro: come i suoi, sono un idraulico e una casalinga di un paesino affacciato sul mare.
“Il babbo e la mamma di Pantani si erano comprati un camper per seguirlo e abbracciarlo dopo il traguardo; i miei si erano comprati il vestito per il giorno della laurea, e abbracciarmi allo stesso modo. Uguali, identici”. Pantani – che il mondo chiamò “il Pirata” dopo che sua madre gli consigliò di indossare la bandana per coprire la pelata con la stessa accortezza di chi dice al figlio di mettersi un maglioncino per non prendere freddo – entrò nella sua vita nel 1998: Fabio Genovesi studiava legge, ma si ritrovò, obiettore di coscienza, in cima agli Appennini, educatore in una casa di riposo per preti, “una maniera per non perderti il Giro d’Italia”, gli disse il padre: lo guardavano insieme al bar alternandolo a passeggiate silenziose tra i boschi. “Se sei felice, Fabio, siamo felici anche noi”. Perché dobbiamo diventare per forza qualcosa o qualcuno? Non lo siamo già?
Cadere è bellissimo se sogni di volare
“Capire è una nostra ossessione e serve solo a distrarci da tutta la bellezza che ci passa accanto”, e cadere è bellissimo davvero, se domani il sole ti troverà ancora in piedi a disegnare un po’ di ombra su questo mondo. Lui l’ha scoperto in quel convento attraverso don Mauro, la Flora, la Gina che correva sbattendo le braccia e si credeva una gallina, ma soprattutto il direttore, don Basagni rinchiuso nella sua stanza ad ascoltare i Doors e a vedere il Giro d’Italia. Il passato non esiste, è solo una scusa, niente se ne va davvero e tutto può tornare a toglierti il respiro.
Universalismo individualistico