Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
Per capire cosa succede in Libia, follow the money
San Giovanni Maria Vianney, sacerdote.
Titoli. Come vanno le cose in Libia? Follow the money, segui i soldi. E’ una vecchia raccomandazione che vale sempre, anche senza un caso Watergate da raccontare. In Libia per capire che aria tira bisogna seguire il petrolio. Mentre la campagna dei bombardamenti americani contro Isis a Sirte entra nel suo quarto giorno, i terminal libici sono bloccati da mesi e non c’è operatore di cargo disposto a scommettere su una rapida ripresa dell’export. La situazione è fotografata da due numeri: la produzione di petrolio in Libia è di circa 300 mila barili al giorno contro gli 1.6 milioni di barili del 2011, prima della caduta del regime di Gheddafi. Secondo analisti e fonti interpellate da Bloomberg è impossibile sperare in una ripresa del mercato nel breve-medio periodo. Le infrastrutture sono danneggiate, il flusso commerciale viene bloccato dalle tribù in lotta per controllare i ricavi del petrolio. Tra gli operatori che devono far fronte a questo scenario, sono citati Eni e Repsol.
La ripresa della produzione di petrolio è una condizione indispensabile per stabilizzare il governo di Faiez Serraj. A fine luglio i capi tribù dell’interno del paese hanno contestato un incontro dell’inviato dell’Onu Martin Kobler con il capo delle forze che (dovrebbero) difendere le strutture petrolifere, Ibrahim Jadhran, il ras dell’Est del paese, poco più che trentenne, uno dei protagonisti della rivolta anti-Gheddafi. La situazione è questa: Jadhran ha la sua manona sui porti, ma gli altri capi tribù controllano oleodotti e giacimenti, cioè l’origine del flusso di petrolio. La mano sul rubinetto non è quella di Jadhran. Come spiega con puntualità il Libya Herald, il problema della produzione “non è amministrativo”, non è nell’unione delle due autorità petrolifere di Tripoli e Bengasi, ma nel controllo delle infrastrutture industriali, giacimenti, oleodotti, terminali e porti. Chi li controlla? Le tribù. Chi ha le armi? Le tribù. Chi ha potere di vita e di morte in Libia? Le tribù.
Un governo unitario in Libia è un’illusione. Gheddafi tenne il paese unito con la forza e con il denaro, ma il governo di Serraj per ora non ha né armi né denaro. La situazione è stata dipinta con grande chiarezza da Peter Millett, ambasciatore del Regno Unito in Libia, durante un’audizione alla House of Lords lo scorso 7 luglio. Alcuni passaggi sono quasi esilaranti.
Domanda di Lord Horam: “E’ vero che c’è una crisi di liquidità in Libia?”.
Risposta di Mr. Millett: L’ho visto la scorsa settimana a Tripoli. Alle otto del mattino, durante il Ramadan, c’erano lunghe code di persone fuori dalle banche che cercavano di incassare i loro stipendi. La Banca Centrale mi ha detto che in Libia circola un numero di banconote pro-capite doppio rispetto a quello del Regno Unito.
Domanda di Lord Horam: E’ vero che le nascondono nei materassi?
Risposta di Mr. Millett: Esatto. L’azienda inglese che stampa il Dinaro, De La Rue, ha recentemente fornito un altro miliardo di Dinari. E’ svanito nel sistema, ma il vero problema da affrontare non è quello di stampare più moneta, è quello di costruire fiducia e sicurezza.
Dunque i libici mettono i soldi sotto il materasso. Mitra e dinaro sono la presenza fondamentale in ogni casa. Ma continuiamo a passeggiare tra le pagine dell’istruttiva audizione dell’ambasciatore Millett.
Domanda di Lord Stirrup: Per la gran parte della sua storia, la Libia non è mai esistita. Ci sono sempre state tre province separate – Cirenaica, Tripolitania e Fezzan – con i regni islamici e con l’impero Ottomano. La Libia come la immaginiamo è una costruzione molto recente. Pensa che esistano sufficienti idee unificanti, siano esse di coesione interna o pressione esterna, per mantenere insieme il paese, un qualsiasi schema di collegamento da applicarvi sopra?
Risposta di Mr. Millett: Questa è davvero una sfida di lungo termine. Ha ragione, in Libia ci sono tre regioni. I libici si riconoscono, prima di tutto e innanzitutto, con la loro famiglia, la loro tribù, la loro città e la loro regione. Al momento, l’interesse nazionale e l’unità nazionale non sono fattori unificanti.
Il problema non sono le esigue milizie di Isis (titolo di Repubblica: “Libia, piano in tre fasi per battere il Califfo”) o altri scenari dove ci sono ben altre logiche politiche (commento su La Stampa: “E’ a Raqqa che si vince la guerra”), non è decisivo neanche il ruolo del nostro Paese (apertura del Messaggero: “Libia, l’Italia farà la sua parte”) e non è questione che si risolve in un batter di ciglia (occhiello sull’Unità: “Libia, la battaglia finale”), la Libia è lo specchio dell’incapacità della politica contemporanea di applicare le tre erre del nation building: ricostruzione, riabilitazione, riconciliazione.
Il problema libico non è (solo) Isis, ma tutta la politica che ruota intorno alla risorsa del petrolio. L’ambasciatore Millett durante la sua audizione alla Camera dei Lord a proposito dell’aumento della produzione, dice una cosa dura, franca, senza giri di parole: “Gli ostacoli sono politici. Sono le persone che hanno il controllo degli oleodotti che possono permettere che ciò accada e, per essere franchi, qual è il compenso che riceveranno per farlo?”. La politica libica è tribale. In tutti i sensi. Buona giornata di guerra.
Post scriptum dalla Libia. Il generale Haftar non ci sta. Via Agi: “L'autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar ha accusato gli Stati Uniti di "violazione della sovranità libica" per aver effettuato raid aerei "senza alcun coordinamento con le istituzioni legali della Libia". A dirlo è stato il portavoce dell'Lna, generale Ahmed al Mismari, citato dal quotidiano egiziano al Ahram”. Senza Haftar, l’unità libica semplicemente non esiste.
Bombardare Assad? Sul New York Times si (ri)affaccia questa ipotesi. Nonostante la cooperazione militare con la Russia, la Casa Bianca dovrebbe colpire le postazioni di Assad dove non sono presenti le forze del Cremlino. Non è l’idea estiva di due giornalisti con una fantasia ipertrofica, ma il frutto dell’analisi di un ex consulente di Obama per il Medio Oriente (Dennis B. Ross) e un esperto di Siria (Andrew J. Tabler). Entrambi fanno parte del think tank Washington Institute. Cooperare con i russi e poi bombardare Assad. Dottor Stranamore è un dilettante. Provate a immaginare le conseguenze.
Il Regno Unito va in rosso. Titolo del Sole 24Ore: “Inghilterra in zona recessione”. La Sterlina è ai minimi, il mercato immobiliare è in rapida frenata, il pil proiettato a fine estate sarà con il segno meno (- 0,4%). Che fare? Oggi la Banca d’Inghilterra dovrebbe tagliare i tassi.
Le batterie di Marchionne. Sono quelle della Magneti Marelli. Interessano a Samsung (brillante titolo su Milano Finanza: “Marchionne scarica le batterie a Samsung”). Il titolo del Lingotto fa un balzo dell’8%.
WhatsApp sarà mai un affare? Diffusione planetaria, ma per ora pochi soldi. Acquistata da Facebook per 22 miliardi, in gennaio ha abbandonato la formula pay. E ora? Indagine del Financial Times.
4 agosto. Nel 1848 il Podestà firma la resa della città al Maresciallo Radetzky, dopo le cinque giornate di Milano.
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