Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
Il governo agisce sempre sugli stessi campi: pensioni e statali. E gli imprenditori?
Titoli. Una fotografia dell’Italia? E’ nel titolo d’apertura del Messaggero: “Statali, più soldi per il contratto”. I lavoratori più garantiti, meno produttivi e al riparo dalla crisi economica che dal 2008 a oggi ha lasciato sul campo morti e feriti nel settore privato, sono pronti a incassare l’assegno: “Il governo pronto ad aumentare i fondi per il rinnovo: da 300 milioni a un miliardo l’anno. La base di partenza della trattativa sarebbe di 80 euro, incrementi non a pioggia ma selettivi”. I contratti sono bloccati, è vero. La Corte Costituzionale dice che bisogna procedere agli aumenti, è vero. Ma c’è un altro piccolo dettaglio, più vero del vero. E’ il seguente: viviamo nel paese che ha fatto decollare nei primi sei mesi del 2016 il debito pubblico a quota 2248,8 miliardi di euro, mentre a dicembre 2015 erano 2171,6. Fate la sottrazione: 77,2 miliardi di euro di debito in più delle amministrazioni pubbliche. Qualsiasi azienda o famiglia che applicasse questi principi di gestione fallirebbe. E’ tempo di manovra e di vecchi vizi che riemergono con regolarità. La Stampa titola: “La manovra cresce a trenta miliardi”. Ottimo, ma per chi? Ora immaginate quali pensieri corrano nella mente di un imprenditore italiano, di un autonomo con partita Iva che spera di crescere, di un medio che desidera diventare grande, di un grande che aspira a diventare titano. E’ una frase che ricorre spesso alla sveglia all’alba e all’ora di cena e diventa un’imprecazione quando deve onorare le scadenze fiscali: “Chiudo tutto e me ne vado”. C’è una sfiducia crescente degli imprenditori italiani, le grandi aziende stanno passando in mani straniere. Scriveva Romano Prodi sul Messaggero qualche giorno fa: “Tra coloro che non credono nell’Italia, dobbiamo elencare anche alcuni protagonisti dell’imprenditoria privata che, senza alcuna situazione di crisi aziendale o prospettive di una crisi imminente, non solo hanno venduto la propria azienda ad attori stranieri o fondi di investimento prevalentemente speculativi ma si sono ben guardati dall’intraprendere nuove iniziative produttive con le risorse ricavate dalla vendita dell’azienda. Per capire la portata della nostra crisi ricordiamo semplicemente che l’Italia ha raggiunto l’incredibile risultato di non avere quasi più alcuna grande impresa nazionale pur essendo, per dimensione, il secondo paese industriale europeo”. E’ un fatto. Come è un fatto l’interesse di molti investitori esteri per le imprese italiane. Ne vedono le potenzialità, la capacità di penetrare nei mercati esteri con prodotti di alta manifattura. C’è un tema che non riguarda dunque solo la classe politica, ma anche la qualità dei nostri imprenditori? Sì. Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera oggi scrive che “gli imprenditori hanno meriti eccezionali ma non dovrebbero sfuggire, come classe dirigente, a qualche serena autocritica. Non sembrano così impegnati nel ridurre i sussidi pubblici alle imprese che distorcono la concorrenza. Non suscita alcun sincero dibattito la scelta di chi trasferisce sede legale e fiscale all’estero pur continuando a sventolare la propria italianità. Non vi è, tranne rari casi, una discussione meno rituale sul modello industriale del futuro”. Bene.
Resta però sul tappeto un tema: che politica industriale può avere un paese che punta 10 miliardi negli 80 euro in busta paga, si prepara a scucirne parecchi altri per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego e mentre la produzione tocca la brillante quota zero nell’ultimo trimestre, si arrovella in piena estate sulle pensioni anticipate? Stiamo a zero, come il pil. Non è questione di pessimismo contro ottimismo, ma di realtà contro desideri.
Se il perimetro in cui si muove il governo è sempre lo stesso (dipendenti pubblici e pensionati), bisogna interrogarsi sul profilo dell’esecutivo, la sua natura e soprattutto la vocazione culturale del partito che lo guida e esprime il presidente del Consiglio, il Partito democratico. Il lavoro autonomo e professionale in Italia è punito, l’accanimento fiscale e burocratico è un fatto incontestabile, la regolamentite senza intelligenza (il codice degli appalti) è una realtà. La Stampa oggi pubblica uno studio della Fondazione Bertelsmann dove l’Italia è al 32esimo posto nella classifica Ocse per capacità di governo e qualità dei servizi pubblici. Numeri, statistiche che in un paese come questo non fanno testo, non entrano nei talk show politici e figuriamoci in Parlamento. Va tutto male? No, ma se la politica decide di legare i destini del paese alla cattura del consenso di chi è super-protetto (il pubblico impiego) e chi non è più attivo (i pensionati), allora potrebbe andare peggio.
Chiediamo più flessibilità all’Europa, ma per fare cosa? E’ il caso di cominciare a pensare alle imprese, fare politica industriale. I dati della produzione nell’ultimo trimestre sono sotto gli occhi di tutti, non si scappa. Si dice: è colpa della Brexit. Ridicolo. Gli effetti post-referendum saranno duri per gli inglesi, impattano sul corso della moneta (vedere il grafico sulle quotazioni della Sterlina negli ultimi sei mesi), sui corsi azionari delle imprese meno globalizzate del sistema industriale britannico, sul settore immobiliare commerciale e abitativo e molto altro ancora.
Le quotazioni riflettono quelle che sono le aspettative del mercato, eventi futuri (scontati dai mercati) che sono però suscettibili di variazioni significative (in negativo o in positivo). Una prova è il dato sull’occupazione nel Regno Unito: il tasso di disoccupazione tra giugno e luglio è ancora al 4,9 per cento, il minimo degli ultimi undici anni. Prima del referendum gli inglesi avevano (hanno) un solido mercato del lavoro. Un calo ci sarà, ma deve ancora realizzarsi e gli economisti faticano a mettere un numero plausibile sui loro report. La Brexit, infine, tecnicamente non si è ancora realizzata e (forse) ci sarà nel 2019. Com’è possibile allora dire che la Brexit è una delle cause della gelata della produzione italiana? E’ impossibile. E anche in futuro l’impatto sull’Italia sarà comunque limitato perché il Regno Unito vale il 5,4 per cento dell’export e le conseguenze della Brexit calcolate dall’Ice di Londra sarebbero pari a una perdita che oscilla tra i 600 milioni e 1,7 miliardi l’anno. Anche qui, siamo nel campo delle previsioni e in ogni caso sono numeri piccoli rispetto al grande problema della produttività italiana. La tentazione di dire che è sempre colpa degli altri ha colpito ancora.
Lunedì prossimo Renzi si incontrerà a Ventotene con Hollande e Merkel. I dati sulla produzione in Europa sono deboli, il premier italiano ha qualche carta da giocare. La giochi bene. Buona giornata.
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America e Europa. Come vanno le cose in America? Obama è alle prese con la Nuova Guerra Fredda e ha scoperto che Putin è un tipetto duro, spregiudicato e intelligente. La campagna presidenziale nel frattempo snocciola fatti interessanti, Clinton cerca di aumentare il suo vantaggio, Trump cambia lo staff della campagna elettorale. Ma gli interessi dell’Europa coincidono ancora con la politica estera degli Stati Uniti? L’èra Obama ha tracciato un confine più grande di quel che si immagini. Pierluigi Magnaschi ieri su Italia Oggi lo ha misurato: “Il disegno strategico degli Usa nei confronti dell'Europa (che è esploso ed è diventato evidentissimo con la duplice presidenza di Obama, ma che rappresenta una costante, dalla guerra fredda in poi, qualsiasi sia il presidente momentaneamente seduto alla Casa Bianca) è sempre lo stesso. Impedire che crescano i rapporti economici e le relazioni politiche fra l'Europa e la Russia. Il motivo strategico è evidente. Così com'è, l'Europa è un complesso di paesi incapace di svolgere una sua politica internazionale efficace (e quindi è naturalmente subalterna agli Usa) mentre, se si integra sempre più con la Russia (e questo è un processo inevitabile se non viene contrastato dall'esterno, come sta succedendo adesso da parte degli Usa) l'Europa, dicevo, finisce per diventare (se non altro per motivi territoriali; visto che, in questo caso, l'Europa andrebbe da Rotterdam e Vladivostok, cioè dall'Oceano Atlantico a quello Pacifico) un polo strategico a livello mondiale in grado di competere, geopoliticamente, con gli Stati Uniti”. E’ una delle possibili conseguenze della fine dell’anglosfera di cui ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times tempo fa. Obama è stato il presidente più distante dall’Europa nella storia degli Stati Uniti. Cosa farà il prossimo? Prima gli americani devono sceglierlo.
Trump 1. L’Intelligence. Com’era la storia che Trump non avrebbe mai avuto i briefing dell’Intelligence americana? Non era vero. Il candidato repubblicano ha avuto il suo faccia a faccia con i servizi segreti. Ci sono timori (e se twitta i segreti americani all’intero mondo?) ma anche una possibilità: che comprenda la complessità dei problemi che deve affrontare la potenza americana. Politico prova a mettere nero su bianco il rinsavimento di The Donald.
Trump 2. La politica estera. Per sapere, per capire, va letto un articolo del National Interest sul discorso sulla politica estera del candidato repubblicano. L’ha scritto Cheryl Benard, una studiosa che non ha alcuna simpatia per Trump, ma il cui giudizio sul testo di Trump è il seguente: “Rock Solid”. Oltre il pregiudizio, oltre The Donald.
Trump 3. Il fronte tedesco. Il candidato repubblicano paragona Hillary Clinton ad Angela Merkel. Non è una buona idea, la Germania della cancellieria negli Stati Uniti gode di grande popolarità.
Clinton e le tasse. La candidata dei democratici ha promesso di inasprire il prelievo fiscale sui redditi alti, ribadendo di voler applicare la “Buffett Rule”, che prevede un prelievo del trenta per cento sui redditi dei ricchi americani, e la “Exit Tax” per le grandi imprese americane che delocalizzano le attività.
18 agosto. Nel 1991 Michail Gorbaciov viene messo agli arresti nella sua villa in Crimea. E’ un colpo di stato guidato dall’ex vicepresidente Gennady Yanayev. A Mosca Boris Yeltsin chiama il popolo a reagire (e lui salirà su un carro armato), l’esercito si tira indietro, il golpe fallisce. Gorbaciov torna a Mosca, scioglie il Partito comunista, Eltsin diventa presidente della Comunità degli Stati Indipendenti. Fine della storia sovietica.
Boris Yeltsin (il primo a sinistra, con un foglio in mano) su un carro armato dell’esercito golpista a Mosca.
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